Le parole e le ragioni della guerra: una riflessione

di Cinzia Colazzo

Durante i lunghi anni di guerra fredda, si parlava moltissimo di pace. Brecht aveva ragione quando scriveva che se i politici parlano di pace, preparano la guerra.

Guerra e pace stanno insieme nel titolo del grande romanzo storico-epico di Lev (o Lew o Léon) Tolstoj, come lemmi conviventi e mondi contrapposti. Nella prefazione che Leone Ginzburg scrisse alla prima edizione italiana (Einaudi), dove, anziché il suo nome, appariva un asterisco per le leggi razziali d’allora (1942), si legge: “Guerra è il mondo storico, pace il mondo umano”.

Guerra, strategie e “danni collaterali”

Come nel romanzo vivono personaggi umani e personaggi storici, così nella realtà noi siamo al contempo attori delle nostre scelte morali, e spettatori della Storia di assedi, bombardamenti, stupri di guerra, strategie militari, perdite di “vite umane” (senza nomi e cognomi), danni “collaterali”. E cosa succede quando le vicende umane e le vicende storiche si incrociano?

In “Guerra e pace” questo momento è incarnato dall’episodio della fucilazione di Karataev, fatto fuori perché durante la marcia dei prigionieri accanto alle truppe francesi in ritirata non riesce più a camminare: Pierre, che aspira a una felicità (pace) terrena, come gli altri personaggi umani nel romanzo, si gira dall’altra parte e finge con se stesso di non aver visto, per mettere in sicurezza dall’atroce realtà storica un certo equilibrio morale raggiunto.


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Con le spalle appoggiate a un simile poeta morale, viene da guardare con sospetto agli intellettuali del presente, che ogni giorno, dai loro laptop, ci ricordano quanto essi siano “morali” e quanto invece l’una o l’altra parte, l’una o l’altra fazione, siano in torto. Gli stessi schemi si applicano, nei periodi meno bellici, ad altri temi: è come se la capacità di indignazione di questi pensatori avesse un ciclo naturale, organico, con picchi e fasi di ripresa (si aggiunga quindi, accanto alla dimensione storica e morale, anche quella naturale). Inerzialmente, gli intellettuali fanno il loro mestiere. Poi, ogni tanto, ci sono i poeti che sanno comprendere i piani del destino umano, e tacere. “Sia più sottile, e più serio…”, così esorterebbe il personaggio di cui scrivo di seguito.

La lezione del grande Leonardo Sciascia

In questi giorni di tragedie e commenti di tragedie (ve ne è uno senza?), ci viene ancora in aiuto un’opera letteraria, “Todo modo” di Leonardo Sciascia. Lo scrittore siciliano fa dire a Don Gaetano: “Ecco che lei torna alle parole che decidono, alle parole che dividono: migliore, peggiore, giusto, ingiusto, bianco, nero. E tutto invece non è che una caduta, una lunga caduta: come nei sogni…”, e, prima, nel testo: “Dio esiste, dunque tutto ci è permesso”. Nella sua vera essenza, dice il prete, questo è il cristianesimo: che tutto ci è permesso. Il dolore: libero arbitrio. Il male: libero arbitrio. Lo scegliemmo. L’abisso come possibilità fu scelto. Altrimenti perché sarebbe possibile scrivere manuali di strategia militare? Perché non sono vietati?

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Sono figlia di ufficiale (in pensione) della Marina Militare. Non so che carteggi passassero in Capitaneria, se carte segrete venissero maneggiate all’insaputa della cittadina salentina occupata a gestire il fetore del mercato del pesce e i motoscafi troppo vicini alla riva, ma sospetto che quel “militare” apposto sulle targhe sia rimasto a lungo silente (per fortuna), eppure mantenuto in vita.

La guerra come modalità di risoluzione dei conflitti, sin dai giochi dei bambini

Noi risediamo in uno Stato militarizzato, e ci giriamo dall’altra parte. Proviamo invece a capire veramente cosa significhi ammettere che le strategie umane, nel mondo storico, sono militari. Proviamo a sentirlo fisicamente, a integrare nelle molecole la possibilità militare, i soldati in casa propria, i sommergibili, i lanciarazzi, i razzi che prendono in pieno un corpo umano (lo scrivo commemorando mio cugino, morto così, in Afghanistan, lontanissimo dal suo paese salentino, dal padre che lavorava di notte nel caseificio di quel paese).

Perché solo avvertendolo nel corpo, cioè lasciando penetrare l’uomo storico nell’uomo morale, potremo un giorno decidere, davvero, che queste strategie tirate dai fili dei burattini-uomini nella Storia, non sono più gradite, o, meglio, non sono più necessarie. Al momento, sembra che non se ne possa fare a meno. La guerra come modalità di “risoluzione” dei conflitti è nei giochi dei bambini, nel linguaggio, è nella memoria collettiva profonda e nelle proiezioni di future competizioni interstellari.

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La parola pace e le infinite parole legate alla guerra

Per meglio comprendere, ho studiato dei manuali americani di strategia militare (su questa dipendenza dovrei interrogarmi: perché per teorie psicologiche e militari mi venga sempre da guardare a quel riferimento culturale). In particolare, ho approfondito il tema dell’assedio. Questa riflessione è partita da una memoria: a scuola, durante gli anni della Guerra fredda, la maestra ci faceva scrivere, indirizzandole al Papa e al presidente USA, letterine invocanti la pace. Era questa la parola più sentita, a quei tempi. Invece, le parole della guerra restavano bidimensionali, appiattite nei libri di storia: assedio, invasione, annessione, alleanza, borsanera, approvvigionamenti, razionamenti.

La pace era una parola leggera, come se appartenesse a un eden lontano, come se non avesse carne. E anche la guerra non era incarnata: fredda, appunto, come la carta. Le altre parole erano astratte e restavano non spiegate. Cos’è, per esempio, un assedio?
In uno degli articoli che ho approfondito, si lamenta la scarsità di letteratura sull’assedio, e si analizza questa strategia di guerra (Warfare), rispetto ad altre più truculenti o lesive dei diritti internazionali, come, ad esempio, l’uso di armi chimiche.

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L’inferno dell’assedio

Nell’arte della guerra (sempre le parole con la loro ironica verità) si soppesano le conseguenze in termini di perdite e di logoramento delle risorse, e il conto è cinico-tecnico. In questi giorni assistiamo a distanza all’assedio di Gaza e sappiamo che, a differenza di un embargo, l’assedio uccide deliberatamente: taglia le comunicazioni, l’acqua, l’elettricità, i rifornimenti, gli approvvigionamenti, in sintesi, condanna alla morte per fame, sete e negato accesso a cure mediche (ad es. a macchinari che tengono in vita). Come per ogni oggetto di trattazione militare, anche l’assedio ha un suo indice di “preferibilità”.

Un assedio è il tentativo da parte di un avversario di controllare gli accessi dall’esterno verso l’interno e dall’interno verso l’esterno di una città, quartiere o qualsiasi territorio di peso strategico per un obiettivo militare o politico. Nel Medioevo, gli assedi erano mossi dall’esigenza di assoggettare un nemico limitando le ostilità dirette e le perdite interne.
L’assedio può essere visto come nemico-centrico (finalizzato a indebolire il nemico) o popolazione-centrico (finalizzato a separare i civili dai combattenti, a impedire che i civili sostengano i combattenti unendovisi, ma soprattutto a evitare che potenze esterne intervengano in un conflitto aperto).

Mezzi di distruzione difficilmente controllabili dalle “buone intenzioni”

La moderna strategia di assedio è quella di isolare la popolazione. Gli assedi sono strategie pazienti: durano in media 12 mesi. E sono perverse: infatti, stimolano la popolazione assediata a sviluppare un’economia di autosufficienza e talvolta anche un orgoglio che l’avvicina ai combattenti. Per la parte assediante la strategia dell’assedio resta “efficiente dal punto di vista dei costi” perché tiene libere le risorse per combattimenti da svolgersi altrove. Si possono citare due casi di assedio “sino alla morte per fame”, definiti “i più profondi gironi dell’Inferno”: l’assedio di Damaya, sobborgo di Damasco, e il campo profughi di Yarmouk in Palestina.

Infatti, anche se la strategia è vecchia come il cucco, oggi l’Inferno è evoluto, perché ha mezzi di distruzione difficilmente controllabili dalle “buone intenzioni”: basti pensare ai bombardamenti aerei cosiddetti intelligenti.

Abbiamo dimenticato Grozny, Aleppo, Beirut

Insomma, l’assedio alla fine sembra avere notevoli limiti tattici. E noi che stiamo a guardarli dal laptop, li ricordiamo? Grozny, Aleppo, Beirut (durante la Guerra del Libano, chiamata da Israele “Operazione Pace in Galilea”). No, non li ricordiamo. Purtroppo, invece, ricordiamo di aver letto tutte queste parole sui libri di storia. Erano piatte.

Avevamo saputo dai racconti scritti anche di una conta diabolica: per una vittima da una parte, ne vengono fatte fuori 40 dall’altra. E ora, queste parole nere d’inchiostro si sollevano e diventano tridimensionali, le vediamo agire nel mondo, uguali, imperiture, arcaiche. Le abbiamo scelte noi, e con la forza di queste parole il mondo della Storia, che è il mondo della Guerra, avanza ciclicamente verso l’uomo di pace.

E verso i bambini, che anziché stare a scuola a fare la conta, trascolorano nel conteggio dei morti.

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