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Michela Murgia è morta in modo rivoluzionario, lasciando un segno indelebile

Fino all’ultimo ho sperato che ce la facesse, contro ogni previsione. Quando Michela Murgia ha annunciato di avere un tumore al quarto stadio che lei aveva deciso di chiamare “Am”, in coreano, l’ho sperato davvero. Sapevo che aveva i mesi contati, lo aveva detto, ma persino Margherita Hack, a proposito della vita dopo la morte, diceva “Spero di sbagliarmi”. E io speravo di sbagliarmi sulla fine di Michela Murgia.

Morta Michela Murgia, con cui quasi nessuno reggeva il confronto

Come tutti, negli anni l’avevo conosciuta come scrittrice, come intellettuale, come femminista, come figura di spicco di un pensiero progressista che apriva nuove strade e poneva questioni spesso scardinanti e radicali, terrorizzando un certo tipo di establishment conservatore, quasi sempre non in grado di misurarsi nel merito o di reggere il confronto con la sua notevole potenza dialettica. Al massimo ho visto detrattori urlarle di stare zitta o attaccarla “in quanto Michela Murgia”, trasformandola in una sorta di “dragon lady” del politicamente corretto.

I peggiori in assoluto hanno fatto ricorso al body shaming, ultima risorsa di ogni mentecatto, e non sto parlando di hater anonimi, ma di “giornalisti” noti e di articoli e tweet vergognosi, che oggi sono la miglior fotografia della loro pochezza. Trovo giusto ricordarlo, prevedendo ipocrite celebrazioni postume e scuse imbarazzanti e fuori tempo massimo, dettate dalla circostanza.


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Michela Murgia ha affrontato la morte come nessuno prima

Non intendo parlare qui della carriera e della biografia di una donna che ha dichiarato di aver vissuto non una, ma dieci vite. Lo stanno già facendo tutte le testate, ripercorrendo nel dettaglio la sua parabola professionale, nelle sue numerosi declinazioni.

Quello che vorrei fare è parlare di quanto l’ultima parte della vita di Michela Murgia mi abbia colpito. È per me difficile, quasi impossibile, affrontare questo argomento, eppure lo sto facendo, così come sono stata in grado di leggere il suo ultimo libro, nonostante evocasse un tema tabù, per me.

La malattia di Michela Murgia è infatti uno degli spauracchi della mia vita, forse il peggiore. Mi ha portato via tante persone, troppe volte ha aggredito parenti, amici e conoscenti e quello che ho visto, e quindi quello che so, è che quando non si ha più tempo ci si chiude a riccio. Arriva questa tempesta che travolge la normalità che si conosceva e ci si rannicchia sperando che passi, in un modo o in un altro. La vita, così come la si conosceva prima, viene messa in pausa non solo fisicamente, ma anche psicologicamente ed è questa la cosa che a volte fa più impressione. Non ci sono più progetti, aspettative, tutto ruota attorno alla malattia e non ci sono altri pensieri se non quello di resistere, di non morire, o la paura paralizzante di non farcela.

Per chi non fa parte del cerchio ristretto degli affetti più cari, le malattie all’ultimo stadio sono invece come una finestra che si chiude, riaprendosi solo quando è tutto finito. Quando qualcuno con cui non abbiamo un rapporto intimo sta per morire, infatti, non lo si sente e non lo si vede più. Lo si immagina, aspettando l’inevitabile.

E poi c’è Michela Murgia. Lei ha usato la fine del suo tempo per organizzare cose molto importanti e vivere come voleva, compatibilmente con le sue mutate condizioni. Ha accettato l’evento morte con una forza inimmaginabile, guardando la fine negli occhi, con serenità transumana.

La fine come atto pubblico, con una regia politica

Murgia ha organizzato i suoi ultimi mesi scandendo una serie di tappe che è stata lei a decidere. Il viaggio sull’Orient Express, che aveva sempre voluto fare, l’uscita del libro, “Tre ciotole“, e l’intervista ad Aldo Cazzullo per il Corriere, un testamento intellettuale che ha reso la sua morte pubblica e politica, insieme ad altre interviste successivamente rilasciate al Salone del Libro di Torino e a Vanity Fair e che colpiscono per la profondità filosofica delle sue riflessioni sull’esistenza, sui sentimenti, sul dolore, sulla società, sull’autodeterminazione e sull’eutanasia, sul nuovo fascismo e sulla nuova inquisizione.

In quelle interviste, ha consegnato a tutti il suo messaggio, chirurgica e lucida com’è sempre stata. “Il tempo della mia vita è adesso” ha detto a Torino, cogliendo l’eternità dell’unico tempo possibile, il presente, tanto più definitivo e potente proprio perché l’orizzonte del futuro si stava chiudendo.

La lotta per il riconoscimento delle famiglie queer

Subito dopo, c’è stato il ritiro dalla vita pubblica e il trasferimento in una nuova casa “con dieci letti”, arredata con l’aiuto della sua famiglia queer, come se si preparasse a iniziare una nuova vita e non a morire. Quindi il matrimonio civile, contratto in articulo mortis per ragioni pratiche e con l’intento, ancora una volta politico, di sottolineare quanto limitato sia l’unico strumento concesso dallo Stato per garantire effetti giuridicamente vincolanti a un legame. Nelle sue storie Instagram, Murgia ha accompagnato le immagini del matrimonio con il brano “Nobody’s wife” di Anouk. “Non fatemi gli auguri, perché il rito che avremmo voluto ancora non esiste. Ma esisterà e vogliamo contribuire a farlo nascere” ha commentato.

Dopo il matrimonio civile, c’è stata la “vera celebrazione” della sua famiglia queer, aperta a tutti su Instagram, ma interdetta a una stampa che ha spesso frainteso il senso di quei legami. Il fine era far brillare una molteplicità di rapporti fondamentali non ratificati dal sesso o dal sangue e rappresentati da un anello con una rana ad altorilievo, simbolo di cambiamento e fluidità. Un gesto che ha dato voce a moltissime famiglie queer, che il mondo non conosce e non capisce. Non ancora. Se un giorno lo farà, però, Murgia avrà avuto in questo un ruolo fondamentale, avendo usato la sua vita e la sua morte per rivendicarlo.

Accettare la morte dentro la vita, senza separarle

Michela Murgia è morta tre mesi dopo l’intervista a Cazzullo e meno di un mese dopo il suo matrimonio e ha usato i suoi ultimi giorni per parlare attraverso le sue storie Instagram e i suoi post. Proiettandosi, ancora una volta, fuori di sé, denunciando le ingiustizie di fronte alle quali non riusciva a tacere, dando il suo contributo per migliorare un mondo che sapeva non avrebbe più visto neanche a breve termine e ascoltando la sua famiglia mangiare o chiacchierare in giardino con una gioia luminosa e senza rimpianti, come chi sa che non siamo soli e soprattutto che non siamo solo noi, il senso del mondo.

E forse è proprio questo che mi ha colpito in un modo che ancora non riesco a spiegare bene. Questa capacità di Michela Murgia di accettare la morte dentro la vita, senza separarle. Spesso mi è capitato di sentire, a proposito di persone  scomparse, che si erano “aggrappate alla vita con le unghie e con i denti”, un’espressione che ho sempre trovato terribile, quando l’esito era scontato. Murgia è stata, nel passaggio dalla vita alla morte, fluida e pronta al salto come la rana che simboleggia la sua famiglia queer. Capace di accettare la fine, ma senza subirla, anzi. Usandola per restare.

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