di Cinzia Colazzo
Ho lasciato Berlino e non intendo tornarci. La amo e la odio. La amo odiando almeno la metà della sua anima, la odio amando l’altra metà. Amore e odio non erodono il rapporto, lo intensificano, lo scavano, lo formano, sino a che non sia più possibile liberarsene, sino a che si arrivi alla libertà massima: amare qualcosa senza subire il rapporto.
Berlino, la città che tutti raccontano nello stesso modo
Se tutti gli scrittori che scrivono di Berlino (sembrano fatti con lo stampino del copia-incolla, rilanciano cose scritte già quindici anni fa da altri con meno clamore) conoscessero davvero il tedesco e il Berlinisch, i luoghi della città, i vecchi abitanti di quartiere e la storia di povertà e carestia, come la storia di esuberanza ed eccesso di questa capitale lineare e complessa, solida e alternativa, ricca di citazioni interne e di riferimenti letterari, vuota in modo ostinato, si vergognerebbero di firmare l’ennesimo articolo sui Klub di Berlino, sui cieli di Berlino, sull’angelo di Berlino, sull’acqua di Berlino etc., che risuonano giusto all’unisono con la Berliner Luft, i ricordini del Muro e le pubblicità dell’azienda BVG.
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Mi permetto di rivolgermi agli scrittori e ai giornalisti “a” Berlino: preposizione che segna l’appoggio su una superficie: fornicate veramente con la metropoli! O vi basta scrivere sulla vostra biografia “vive fra Berlino e New York”? E voi, lettori, volete leggere didascalie alle foto di tramonti catatonici sulla Sprea, o volete testi penetranti?
Una città consumata dall’interno, da tutti quelli che la usano
Berlino è una di quelle città che saranno consumate, divorate dall’interno, da tutti quelli che la usano. Si comincia con il linguaggio: con il rifiuto di parlarne la lingua, cioè con un no selettivo e il ricorso a un linguaggio-slalom composto di gesti e di idiomi bradi, sgrammaticati. Si continua con una prassi definitoria che riduce al minimo le dimensioni, nell’illusione di coglierle: “città dei turchi/città dei Klub/città del Muro/città della Currywurst/città senza centro”. Si prosegue con la tendenza alla rivalsa predatoria: “Senza noi stranieri, saremmo ancora al caffè per sciacquarsi i piedi”. Si finisce con la mercificazione della città: “Compriamo a Berlino! Facciamo affari!”.
Il ciclo si chiude con saturazione e decadenza. Gli investitori scommettono sulla resistenza della città, prima di un’esplosione della bolla. È questione di tempismo: stare sul pezzo. In questo schema, non si avverte alcuna nota sentimentale. Berlino resta come un poster sullo sfondo, violata e allo stesso tempo intatta. Una donna adagiata sul letto, aperta: in mezzo scorre il fiume, con le chiatte dei party e le bottiglie aperte a morsi.
Questa è la storia delle parole su Berlino, che è diventata la storia della città. Venduta come un posto per divertirsi, si è adeguata alla clientela e al marchio che di sé è stato creato. Sono sorte allora intere vie di bar, caffetterie, Späti, nuovi ristoranti e paesaggi urbani di consumo, che a loro volta stanno tirando su generazioni che vedono solo luoghi di svago e reiterazione diffusi nel proprio quartiere, non certo il sarto, il ferramenta e il panettiere.
I fiorai ci sono ancora e aperti sino a tardi, soprattutto nelle stazioni della metropolitana, per un regalo da prendere al volo. Le Schrippen (panini berlinesi) si trovano a tutte le ore, surgelate e sfornate calde, nei supermercati aperti sino alle 24, come pure le Brezel e le Wurst (entrambi i lemmi sono femminili in tedesco). La merce c’è ancora: il mestiere no, il vissuto attorno al mestiere no.
Gli italiani che si lamentano dell’esplosione degli affitti, ne hanno approfittato in passato
Dopo tanti anni trascorsi a Berlino, durante i quali, per mia natura, ho cercato di stringere rapporti duraturi con gli anziani del palazzo e del quartiere, sento profondamente l’abuso. Il tempo non si può fermare, gli investitori immobiliari sono inarrestabili, ma si possono ancora mettere i puntini sulle (o sugli) i. È da notare, per esempio, che gli italiani che si lamentano dell’esplosione dei prezzi degli affitti e delle vendite di immobili, sono proprio quelli che più ne hanno approfittato. Comprato a 100, hanno rivenduto tranquillamente a 300.
I tedeschi non si sarebbero sognati di fare questo a se stessi, probabilmente. I tedeschi sono un popolo. E un popolo non ha tendenze suicide (nevvero?). Il popolo tedesco, generalizzando perigliosamente, è così fatto: discute e discute e poi delibera che mense e trasporti pubblici debbano essere gratuiti per l’intera durata dell’obbligo scolastico (perlomeno nel Land di Berlino), delibera che le strade vengano chiuse per adibirle al gioco, delibera il limite di 30 dove vivono e si muovono bambini, delibera che le donne possano andare in piscina a petto nudo come gli uomini, o vestite dalla testa ai piedi secondo gli obblighi di comunità, delibera di lasciare i parchi aperti, le volpi nei parchi, di installare piccole fattorie negli spazi urbani, delibera di includere i bambini nell’esercizio della democrazia, inviando loro a due settimane dalla nascita lo Steuernummer e trattandoli come “futuri pagatori di tasse” e perciò degni di ricevere scuole nuove e parchi ben attrezzati (soprattutto se vivono nei quartieri esclusivi).
Delibera, anche, di avere la coscienza a posto con una quota di bambini in povertà o minacciati dalla povertà, girandosi dall’altra parte. Tollera, maldestramente, l’infelicità degli ultimi, creando un sistema sociale che si occupi di tenerli buoni. Incoraggia l’ignoranza degli insegnanti, ma sa cogliere pragmaticamente l’occasione di stranieri immigrati ben preparati nelle loro terre natali. Il Land di Berlino si muove, ha un’idea di futuro, e questo si avverte, anche se il futuro può essere distopico o trumaniano.
Conoscere i tedeschi significa conoscere le loro radici
Nella cultura tedesca è importante insegnare ai bambini i nomi di fiori e piante, spiegarne l’uso, promuovere la produzione di infusi, sciroppi, pomate. Il popolo tedesco “mitico” è un popolo di alberi e gnomi.
Se non si capisce questo, allora lasciamo perdere i poeti tedeschi, Wagner, Steiner, i Grimm, lasciamo perdere in toto la lingua tedesca e trasferiamoci a Berlino con il po’ di inglese imparato a scuola o su Babbel. Se poi ci si trasferisce a Berlino senza famiglia, andando a rafforzare la demografia della città dei single, allora un altro pezzo di vita berlinese rimarrà completamente sconosciuto. Lasciamo perdere allora anche il Sandmann. Bobo. La Brotbox. La Schultüte. Lo Schülerausweis. Il Seepdferdchen. La Einschulung. Le Herbstferien. La Trotzphase!
Se si arriva a Berlino da individualisti, togliamo anche la possibilità di farsi accettare dai berlinesi storici, gli ultrasettantenni, e di amare la città attraverso i loro racconti, e di imparare parole che ancora esistono solo nelle loro teste e nei testi, e di capire che le cicche non si buttano dalla finestra, non si lasciano i cartoni Amazon accanto al bidone nell’Hof, non si dice Hallo a tutti ma talvolta Mahlzeit! Non sono parole: sono stili di vita e di pensiero.
Se poi si arriva a Berlino solo per i Klub, per fuggire dall’Italia e perché stare a Kreuzberg-Friedrichshain fa parte di una strategia di promozione della propria immagine (non della propria forza narrativa!), allora basta avere i soldi per galleggiare sulla Torre della Televisione come esili figure di Chagall con le rendite in banca.
Non si abitano una lingua e una terra straniera senza farsene cambiare. Io ho imparato a conoscere veramente me stessa attraverso le ostilità berlinesi e la lingua italiana attraverso la lingua tedesca. All’inizio tutto sorprende come separato da sé, ma alla fine si scopre che tutto sta insieme, da sempre. Chi resta nell’ignoranza, è fermo allo stadio della sorpresa. Bisogna porsi dentro le cose, accettare un Commitment, un Engagement, una Verpflichtung.
Berlino e il dolore: una prospettiva sconosciuta ai più
Se si arriva a Berlino con l’idea della città libera e spensierata, e si ha un minimo di sensibilità, si capirà di essere finiti su un chakra di dolore. Non esiste un’esperienza vera della città senza un tale sentimento di dolore universale. Non conosco persone perbene che non abbiano coscienza di questo grumo quando risiedono a Berlino. È il motivo per cui io non posso più fermarmi lì. In Germania ho lasciato i miei figli grandi, cioè le mie radici di madre, e sono tornata in Italia per rifiorire, almeno un paio di stagioni.
Berlino può letteralmente sotterrare. Questo non lo si dice mai. Chi prova un tale affondo nell’Ade, si vergogna. Berlino è la città in cui affermarsi, dopo le frustrazioni in patria, in cui inventarsi un’identità positiva, cioè stabilizzata, ed è plausibile che chi vi trovi un lavoro fisso, ben pagato, come pure l’asilo quasi gratuito e la metropolitana sotto casa con corse a ogni ora del giorno e della notte, sia disposto a tacere su tutto il resto.
Non è solo una città piena di fantasmi, è anche la piazza migliore per il lavoro energetico-spirituale. Berlino crea il problema e la soluzione. Non ho amiche a Berlino che non siano dovute ricorrere a sciamani, centri di ricerca spirituale, pulizie dell’aura, yoga almeno tre volte a settimana. Ogni interstizio di Berlino ospita una molecola di ombra, soprattutto nei pressi di uno Jugendamt. Individualismo e controllo sociale, individuo e uffici pubblici, Luxuswohnungen e il pericolo di rimanere impigliati in una rete perversa. Auguratevi sempre di stare dalla parte del luccichio, perché se avrete un figlio “auffällig”, un po’ fuori dalla norma e a rischio Sonderschule (scuola speciale), o se voi stessi non rientrate in una norma comportamentale, potreste sentire addosso la maglia d’acciaio della Prussia.
Da Berlino al Brandeburgo: nuove prospettive
La saturazione della capitale tedesca ha ancora margini di sviluppo: c’è il campo largo della campagna. Ecco che dopo i berlinesi d’adozione, arrivano i nuovi brandeburghesi! Per esempio amburghesi in crisi di mezza età che scoprono il Brandeburgo di mele pressate, asparagi e latte. Non solo per “quagliare”, concludere un affare (acquisto di immobili come Kapitalanlage, partendo da una Gutshaus, un podere, e finendo con l’accontentarsi di una Scheune, un fienile), ma anche per decomprimersi. Si vedono da qualche anno sciami di cittadini stanchi del carovita e dei cantieri volgere lo sguardo alle campagne, installarvi centri benessere, olistici e depurativi. Ed ecco la casa tradizionale trasformata in Seminarhaus con cucina vegana.
Ma anche qui, in Brandeburgo, sulla Havel, in una casa con Feuerstelle per fare i falò e la brace, le persone sensibili avvertono il vuoto e l’oppressione di qualcosa di remoto e dannatamente attuale, un senso di controllo e di abbandono, di frutto senza polpa: l’Ost con la sua storia di contenimento e successivamente la fuga delle donne da luoghi e uomini senza iniziativa. Chissà se fra due generazioni il Brandeburgo sarà un luogo ridente (leggi ridanciano), con le piscine e le femmine succinte a bordovasca, su modello toscano. Questo è il quadro della nuova anima del luogo. Si vuole fare di Berlino ciò che non si può fare in altri contesti ormai inaccessibili (cioè senza accesso a margini interessanti): spingerla in avanti sino al giro di boa.
La citazione di citazione è ormai un formato editoriale e la maggior parte delle persone vuole non tanto conoscere quanto riconoscere, ritrovare quello che è stato narrato da altri. Ho fatto pace con questo genere pseudo-letterario. Ma se si arriva a Berlino disposti a comprendere le ragioni della città e a dilatare le proprie risorse emotive, senza fare confronti e senza farsi intimorire da un certo modo tedesco, che ormai ritengo tenero, perché debole, di pensare che ci sia un’unica via corretta, cioè la propria, se si fa lo sforzo di leggere i testi in lingua originale, anche di liriche e Lieder, e non ci si accontenta del poco che si pratica di una lingua possente, se si smette di usare la città come una coccarda da mettersi al petto, senza farsene trafiggere almeno un poco, allora Berlino vale ancora il gioco. Ma bisogna veramente penare per amare un’anima in pena!
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