Intervista a Stella Assange: “È in gioco la libertà di stampa in tutto il mondo, non solo la libertà di Julian”
Ho intervistato Stella Assange a Berlino, in occasione della sua partecipazione alla conferenza “Smart Prisons: Tracking Monitoring & Control”, organizzata dal Disruption Network Lab, nel corso della quale veniva presentato al pubblico tedesco il documentario “Ithaka”, realizzato dalla famiglia di Julian Assange, che racconta la battaglia legale e umana per evitare l’estradizione di Assange negli Stati Uniti.
Breve riassunto del caso Assange
Il caso Assange è talmente complesso e ramificato da richiedere un’introduzione, per quanto estremamente semplificata e sintetica, prima dell’intervista vera e propria. In questo momento Julian Assange, giornalista australiano e fondatore di WikiLeaks, si trova in carcere, nel penitenziario inglese di Belmarsh, dove è detenuto dall’aprile del 2019. L’unica condanna alla quale sia stato soggetto, però, era limitata a 50 settimane, scontate nel medesimo istituto penitenziario, per mancata comparizione in tribunale dopo un rilascio su cauzione. Dopo questo termine, a mantenere in carcere Julian Assange sono tre accuse per le quali gli USA ne hanno chiesto l’estradizione. La prima è l’accusa di intrusione informatica, che prevede una pena massima di cinque anni di reclusione. La seconda è stata mossa in base alla legge americana sullo spionaggio del 1917 ed è quella che potrebbe costare ad Assange 175 anni di carcere. La terza, infine, ha a che fare con il presunto tentativo di reclutare hacker per commettere altri reati informatici, in collaborazione con organizzazioni come Anonymous.
Le prime due accuse sono state mosse in relazione a una serie di documenti e video che WikiLeaks ha pubblicato nel 2010, dopo averli ottenuti dall’ex analista di intelligence dell’esercito americano Chelsea Manning – i cosiddetti “Iraq War Logs” e “Afghan War Diary” – che dimostravano una serie di crimini di guerra commessi dalle truppe statunitensi in Afghanistan e Iraq, che comprendevano, fra le altre cose, uccisioni extragiudiziali, uccisioni di giornalisti e attacchi diretti ai soccorritori dopo un bombardamento, oltre a informazioni sulle violazioni dei diritti umani nel carcere di Guantanamo. I documenti sono interamente disponibili online. Manning è considerata oggi una delle più famose whistleblowers della storia degli USA. Condannata nel 2013 a 35 anni di carcere per molteplici reati riconducibili allo spionaggio, è stata rilasciata nel 2017 dopo che l’allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha ridotto la pena decisa dal tribunale.
A rendere unico il caso Assange è il fatto che, per la prima volta, a essere sotto accusa non è il whistleblower, ovvero la fonte delle notizie o la persona incriminate per aver sottratto materiali riservati, ma il divulgatore, il giornalista o il tramite fra il whistleblower e l’opinione pubblica.
Stella Assange, che ha conosciuto Julian Assange in quanto parte del gruppo di legali che si occupava della sua difesa, è oggi sua moglie e la madre dei suoi due figli, di cinque e sette anni.
Nel giugno del 2022 la ministra dell’Interno del Regno Unito, Priti Patel, ha autorizzato l’estradizione di Julian Assange negli Usa per affrontare accuse relative alla legge sullo spionaggio. Agnés Callamard, segretaria generale di Amnesty International, ha dichiarato che “Questa decisione pone Assange in grande pericolo e invia un messaggio agghiacciante ai giornalisti in ogni parte del mondo”.
Ad agosto 2022, il team legale di Assange ha presentato un ricorso presso l’Alta Corte Britannica, contestando la decisione della giudice distrettuale Vanessa Baraitser del 4 gennaio 2021 con nuove prove. Nel novembre 2022, Assange ha presentato un ulteriore ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo.
Cosa si sa, fino a questo momento, dell’esito delle richiesta di appello presentate per impedire l’estradizione di Julian Assange negli Stati Uniti?
Nel Regno Unito non si ha automaticamente il diritto di ricorrere in appello. Si fa richiesta con le motivazioni del ricorso e l’Alta Corte decide se concederlo o meno. Julian ha presentato richiesta di appello su più di una dozzina di punti diversi. L’Alta Corte sta esaminando le motivazioni, se non sbaglio da settembre, e siamo in attesa di sapere se autorizzerà o meno l’appello. E se dovesse negarlo, c’è ancora la possibilità di rivolgersi forse alla Corte Suprema, ma anche in questo non è detto che il ricorso venga accolto. E poi c’è la Corte Europea dei diritti dell’uomo.
Sarebbero dunque loro ad avere l’ultima parola?
Questa è la nuova frontiera per il Regno Unito. È come se fosse una nuova Brexit, il fatto di restare all’interno del sistema della Corte Europea dei diritti dell’uomo oppure uscirne. Quindi è tutto in bilico. I governi conservatori che si sono succeduti hanno detto di voler lasciare tale sistema, ma non è chiaro in che misura, e rispetto a quali parti del sistema giudiziario europeo. Ma allo stato attuale, sì, la Corte Europea dei diritti dell’uomo potrebbe potenzialmente fermare un’estradizione. Io credo che nel continente europeo ci sia una migliore comprensione, soprattutto negli ambienti legali, delle implicazioni di questo caso.
Pensi che possa verificarsi qualche cambiamento rilevante con il nuovo governo britannico? Ritieni che il primo ministro Rishi Sunak possa avere l’interesse o l’autorità per impartire un cambio di rotta?
Credo che il Regno Unito sia sotto pressione, perché la sua credibilità è sotto esame, in particolare rispetto al modo in cui i tribunali gestiscono questo caso, che è un caso politico. Circolano molte informazioni errate sulla sorveglianza a cui sono stati soggetti gli avvocati di Julian, su cosa stesse facendo il governo degli Stati Uniti nel periodo in cui Julian era all’interno dell’ambasciata [ecuadoriana], sui progetti di rapirlo o di farlo assassinare e in generale sulla natura politica e sui profili di abuso di questo caso. Quindi penso che ci sia un problema di immagine per i tribunali del Regno Unito e sono certa che ne sentano il peso. Per quanto riguarda il governo, penso che l’esecutivo di Rishi Sunak, veda questo problema come un problema di eredità politica.
Penso che per loro sia soprattutto un problema il fatto che Juilian sia detenuto in una prigione inglese, ma che non sia “colpa” loro.
Pensi che anche Joe Biden lo veda come un problema di eredità politica?
Penso che Biden si trovi a fronteggiare forze contrastanti, all’interno del suo governo. Ci sono forze che vogliono l’estradizione di Julian e forze che vogliono chiudere il caso. Ma alla fine, credo che per l’amministrazione Biden sia molto comodo il fatto che Julian sia detenuto fuori dai confini degli Stati Uniti. Si può dire che, nel corso degli anni, Julian sia scivolato fra le crepe del sistema. Gli Stati Uniti possano legittimamente dire di non essere responsabili della sua detenzione, perché tale responsabilità è del Regno Unito. Gli inglesi a loro volta possono dire che Julian non è loro prigioniero, che sono gli Stati Uniti a volerlo estradare. E l’Australia può dichiarare di non poter interferire fra queste due potenze. Quindi c’è sempre una sorta di scusa amministrativa.
E questo è molto comodo perché Julian è un critico. È un critico della politica estera. È un critico della corruzione. Critica il modo in cui i governi non hanno perseguito i crimini di guerra e così via. Ed è una persona scomoda da avere a piede libero. Quindi il modo per affrontarlo è quello di renderlo un prigioniero politico. E trovano ogni sorta di scusa per tenerlo in prigione il più a lungo possibile. E la cosa diventa evidente quando si parla con il pubblico. Tutti sanno che Julian è in prigione, ma, a meno che uno non si informi e segua il caso attentamente, difficilmente le persone sanno perché. E questo capita perché è un prigioniero politico.
Parlando proprio del pubblico e con il pubblico, si ha l’impressione che Julian Assange abbia perso alcuni di quelli che potrebbero sembrare i suoi alleati naturali. Tutta quella parte di elettorato internazionale che afferisce ai media liberali e orientati a sinistra e che generalmente si esprime a favore della libertà di stampa . In questi ambienti, il caso Assange è diventato un caso quasi “di nicchia”, con il quale spesso manca il coinvolgimento attivo. Ti sei data una spiegazione o hai formulato una teoria a proposito di questo fenomeno?
Non so più quanto i media orientati a sinistra si possano considerare contrari alla guerra. In generale, non sono sicura che il caso di Julian sia stato adeguatamente compreso, per i motivi che ho detto. C’è una comprensione molto scarsa di ciò di cui Julian è accusato. Una comprensione molto scarsa delle pubblicazioni in questione riguardanti l’Iraq e l’Afghanistan. E si tratta di pubblicazioni che risalgono ormai a 13 anni fa.
Allo stesso tempo, però, nessuno mette in dubbio la veridicità delle rivelazioni di Chelsea Manning né il fatto che in Afghanistan e Iraq siano stati crimini di guerra. Lo stesso governo americano, nella persona di Obama, ha commutato la pena di Manning, che è ora libera. Perché, dunque, dovrebbero restare in piedi le accuse contro Julian Assange?
Perché? Perché i nostri diritti e le nostre libertà sono incredibilmente indeboliti e impoveriti, e le tutele che dovrebbero salvaguardare la nostra libertà non funzionano. Se le regole e le leggi che difendono la libertà di stampa, che difendono le persone dall’essere detenute arbitrariamente, che impediscono i casi di persecuzione politica fossero effettivamente efficaci, Julian non sarebbe in prigione.
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In America, il caso di Julian Assange dovrebbe essere assegnato al Tribunale Distrettuale degli Stati Uniti per il Distretto Orientale della Virginia, lo stesso che ha processato e condannato John Kiriakou e molti altri whistleblower. Tutti costoro avevano in comune il fatto di essere cittadini americani che hanno rivelato informazioni su illeciti commessi dalle organizzazioni per cui lavoravano, rispondendone poi in tribunale, nel proprio Paese e contrapponendosi al proprio ex datore di lavoro. Sia tu che Julian, invece, non siete cittadini americani, tu sei un avvocato e Julian è un giornalista. Perché, secondo te, il caso Assange è stato assegnato allo stesso tribunale noto per le condanne ai whistleblower?
È una cosa del tutto incomprensibile se lo si guarda con obiettività. È come se… Facciamo un esempio. Immaginiamo che tu abbia ottenuto e pubblicato informazioni sul fatto che il governo del Marocco ha compiuto un massacro di civili innocenti in Algeria. Dal momento che tu hai pubblicato questa notizia, il Marocco chiede che tu venga estradata dalla Germania, perché hai rivelato i loro segreti e hai svelato il loro tentativo di coprire un massacro di civili. Quali obblighi avresti tu, come giornalista italiana in Germania, nei confronti del governo marocchino?
Che io sappia, nessuno
E invece il Marocco può affermare di applicare le proprie leggi sullo spionaggio nello stesso modo in cui il governo degli Stati Uniti applica le sue. Non importa che tu non sia e non sia mai stata in Marocco. Non importa che tu sia in Germania. Non importa che non ci sia alcun legame territoriale. Non importa che tu stia denunciando crimini internazionali – il che, tra l’altro, si può considerare un obbligo legale oltre che un dovere morale, se si è in possesso di informazioni che provano un crimine internazionale o un crimine contro l’umanità. Niente di tutto questo conta. Il governo marocchino decide che le sue leggi operano extra territorialmente su tutto il mondo. E non importa che tu sia una giornalista. Loro decidono che non lo sei, perché il governo marocchino non ti considera tale. E allora presenta una richiesta di estradizione e ti condanna a 175 anni di carcere se vieni estradata.
Ora, forse, anzi probabilmente la Germania non ti estraderebbe. Non l’hanno fatto in passato. Non hanno nemmeno esaminato la richiesta di estradizione di Can Dündar in Turchia, accusato su basi molto simili a quelle di Julian.
Però supponiamo che il Marocco abbia un ottimo rapporto, per esempio, con la Tunisia. Tu vai a fare un reportage dalla Tunisia e loro presentano una richiesta di estradizione. Il senso è che questo caso crea un precedente. Non si tratta solo dell’ipotesi che Stati Uniti un domani chiedano l’estradizione di giornalisti europei. Si tratta di un nuovo standard internazionale in cui i giornalisti sono un target accettabile per chiunque.
Dal momento che parliamo di motivazioni politiche, quali credi siano state le ragioni che hanno spinto il governo ecuadoriano guidato da Lenín Moreno a revocare l’asilo politico concesso a Julian Assange da quello di Rafael Correa, portando al suo arresto e quindi alla sua attuale detenzione?
Lenín Moreno ha annullato praticamente tutto ciò che Correa aveva fatto. Ha stretto un accordo con gli americani e l’intera amministrazione Moreno si è occupata di stabilire una relazione strategica con gli Stati Uniti, che ha incluso perfino la creazione di una pista per gli aerei militari statunitensi alle Galapagos. Insomma, tutto ciò che Correa aveva cercato di cambiare, sotto Moreno è stato riportato indietro. Moreno aveva capito che Julian era merce di scambio di grande valore. Così ha passato due anni a lavorare per ottenere il miglior accordo possibile, che comprendeva, fra l’altro, un prestito sostanziale di diversi miliardi di dollari da parte del FMI [4,2 miliardi di Dollari nel 2019, fonte FMI ndr], la riduzione del debito e così via. Julian è sempre stato uno strumento che poteva servire per strappare concessioni agli Stati Uniti: non lo avrebbero mai protetto.
Sperate in un cambio di rotta con l’amministrazione Biden?
Questo è un momento di svolta colossale per gli Stati Uniti. Questo caso di fatto vanifica tutte le garanzie sulla libertà di stampa e la non persecuzione dei giornalisti, che storicamente per gli USA è un punto importantissimo. Il caso Assange rischia di creare una frattura enorme nella tutela della libertà di stampa e della libertà di espressione negli Stati Uniti. L’amministrazione Biden deve quindi decidere se seguire l’eredità di Trump nel minare e sostanzialmente compromettere la libertà di stampa e negare il Primo Emendamento, o se seguire l’esempio di Obama e andare in direzione contraria. E finora, inspiegabilmente, hanno scelto di seguire le orme di Trump. Le conseguenze possono essere di lunga portata. Le elezioni si avvicinano e ai Democratici le cose non vanno affatto bene. Questa situazione si può ritorcere contro di loro. L’esistenza stessa di questo caso ha messo in agitazione la stampa.
Ecco perché il New York Times e il Washington Post hanno rilasciato dichiarazioni per la liberazione di Julian. Ed è per questo che già scelgono di non pubblicare i “leaks” che ricevono. I loro avvocati guardano al caso Assange e impongono di non pubblicare, perché si rischiano cause giudiziarie, si rischia la prigione. Questa è l’atmosfera in cui si muove oggi la stampa, da quando la legge sullo spionaggio può essere applicata anche alla pubblicazione di notizie. Questa è la minaccia che incombe sulla testa di ogni editore che deve fare un’analisi del rischio. Ed è ovvio che tutto questo sta già erodendo la libertà di stampa.
Perché, in questa fase, avete scelto di realizzare un documentario?
Perché volevamo riappropriarci della nostra storia, della storia di Julian e raccontarla alle nostre condizioni. Perché altri hanno già tentato di manipolare la percezione che le persone hanno di Julian, delle accuse mosse contro di lui, di ciò che è WikiLeaks, delle sue motivazioni. È in corso un attacco per plasmare l’opinione pubblica in modo tale da ridurre il suo sostegno e rendere più facile la sua incarcerazione. Realizzando questo film, essenzialmente, abbiamo utilizzato quello che era alla nostra portata in quanto famiglia di Julian e abbiamo ritenuto che la nostra storia fosse importante da raccontare. Credo che sia questo l’aspetto interessante del film. È una prospettiva completamente diversa.
In diverse occasioni hai parlato di misure di sorveglianza applicate anche ai membri della tua famiglia. Puoi raccontarci in cosa sono consistite tali misure?
Molte cose le abbiamo scoperte dopo, non ne conoscevamo e non ne conosciamo ancora la reale entità. Ma quello che abbiamo scoperto è stato grazie a informatori che hanno lavorato nella parte operativa della sorveglianza della società di sicurezza, che lavorava all’interno dell’ambasciata. Quando Julian è stato arrestato, molte di queste persone sono diventate whistleblowers e hanno fornito alle autorità spagnole prove sul tipo di spionaggio che stavano svolgendo e sui committenti [La ditta di sicurezza operante all’interno dell’Ambasciata Ecuadoriana a Londra era spagnola. Il caso è stato coperto, fra gli altri, da El País, ndr]. È emerso che lavoravano per committenti americani e che era stato chiesto loro, per esempio, di registrare gli incontri di Julian con i suoi avvocati, prendere appunti sugli incontri legali, trasportare fisicamente hard disk con registrazioni video e audio di telecamere nascoste e così via. E sono stati affidati loro anche compiti specifici, fra i quali pedinare mia madre e ottenere il DNA del nostro bambino, che all’epoca aveva sei mesi [secondo quanto riportato da El País e altri media spagnoli, lo scopo era accertare se i bambini fossero realmente figli di Assange]. Dopo un po’, una delle guardie di sicurezza mi ha detto di non portare più il bambino in ambasciata, perché era pericoloso.
Se il vostro appello venisse accolto e Julian venisse scarcerato, come vi comporterete? Avete pensato a come potrebbe essere la vostra vita dopo la detenzione? A dove vorreste vivere? Julian vorrebbe continuare a fare quello che faceva prima?
Viviamo giorno per giorno. Ma è importante avere anche una visione di quello che può essere il nostro futuro. Mi viene chiesto spesso cosa farà Julian quando sarà fuori. Credo che la cosa più importante sia che abbia la libertà di scegliere come trascorrere il resto della sua vita. E questa è la priorità più alta, in questo momento: fare in modo che non debba passare il resto della sua vita in una cella.
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