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“Il Berghain cambia l’orientamento sessuale”: il professore inglese, i giornalisti tedeschi e il clickbait – Editoriale

Alcuni giornali tedeschi (come la Berliner Zeitung) hanno riportato la curiosa notizia di uno “studio inglese” secondo cui “il Berghain cambia l’orientamento sessuale” di chi lo frequenta. Se il titolo fa un po’ ridere e un po’ suscita scetticismo è perché nessuna delle affermazioni in esso contenute è esattamente vera, però è innegabile che, messe insieme, facciano venire voglia di cliccare sull’articolo per saperne di più. Nello stile degli articoli scientifici – nonostante questo non sia un articolo scientifico e neppure un articolo di debunking, se mai qualcosa di più vicino a un editoriale – cominciamo con un “abstract”, ovvero con il riassumere per il lettore le tesi che saranno contenute nel testo che segue.

Abstract

Johan andersson, un professore di Geografia Culturale Urbana del King’s College di Londra, che si occupa prevalentemente di analizzare i fenomeni legati alla vita notturna queer, che ha frequentato tantissimo il Berghain e ci si è divertito parecchio, presumibilmente svolgendovi tutte le attività che più frequentemente vi si svolgono (fra le quali ballare è la terza in ordine di importanza), ha deciso di scrivere un lungo articolo sul perché accoppiarsi gioiosamente anche con le gambe dei tavolini sia più facile e probabile in un sex club berlinese che in fila alla posta. E, siccome è davvero un professore del King’s College e ha citato un sacco di altre fonti autorevoli di studiosi della cultura queer e del fenomeno del clubbing, l’articolo, che è anche interessante, è stato pubblicato dai Sage Journals, una fonte rispettabile che pubblica anche veri studi e ricerche scientifiche. Anche, ma non in questo caso.

il berghain

Perché quello di Johan Andersson non è uno studio?

Prima di tutto perché è solo un articolo su una rivista scientifica (disponibile per intero e gratuitamente qui) e poi perché lo dice lo stesso Andersson, nella parte introduttiva. “A differenza dell’uso esplicito dell’autoetnografia da parte di Caluya e Lambevski (precedentemente citati, ndr), il mio resoconto è incentrato su una gamma eclettica di materiali già in circolazione sul Berghain, tra cui giornalismo, letteratura, studi, fotografie, arte esposta all’interno del club, disegni del pubblico, meme, social media e paraphernalia. Queste rappresentazioni hanno contribuito a creare il mito del locale che, a sua volta, probabilmente influenza il comportamento poiché i topoi ricorrenti sull’eccesso edonistico creano una serie di aspettative che i visitatori cercano di soddisfare. Implicitamente, il mio racconto è anche informato da osservazioni personali: sono stato al Berghain molte volte nell’arco di 17 anni, tra il 2005 e il 2022, ma raramente ho considerato queste visite come [istanze di una] ricerca. Pertanto, non esiste un archivio di annotazioni scientifiche vero e proprio, ma si spera in un senso cumulativo e longitudinale di come il club e la sua sottocultura si siano evoluti.”

Andersson, insomma, ha voluto più che altro scrivere un’ode al Berghain e lo ha fatto con gli strumenti della sua professione: eloquenza, confronto con altre fonti, approfondimento di vari aspetti. Per farlo, ha usato la sua esperienza, articoli di altri, immaginario collettivo, foto e meme. E ha detto, peraltro, cose anche molto condivisibili, nessuna delle quali è però sufficiente a qualificare questo come “uno studio”, visto che non c’è dietro una ricerca. Forse, nell’Abstract di questo editoriale, sarebbe stato giusto scrivere “la tesi che voglio dimostrare è che i giornalisti che titolano utilizzando le parole ‘uno studio afferma’ sono colpevoli di clickbaiting nel 99.99% dei casi”.

il berghain

È vero che il Berghain “fa diventare gay”?

Perché è a questo che, nelle intenzioni dei titolisti tedeschi, pensano i lettori. Quelli conservatori per poter finalmente dire che omosessuali si diventa e che i luoghi di perdizione rovinano la gioventù, quelli liberali per poter dire “ma guarda tu quante baggianate si devono sentire in giro”, quelli che sono andati al Berghain e si sono divertiti moltissimo con persone dalle svariate identificazioni di genere, ma ci tengono molto che la mamma al paesello non lo sappia, per poter dire “allora non sono un pervertito, è colpa del Berghain che mi ha fatto fare cose che io altrimenti non avrei mai fatto”. E così l’articolo ottiene migliaia di visite ed è perfettamente irrilevante quale di queste tre posizioni difenda o se invece sia un riassunto fedele dell’articolo di Andersson (che non sostiene nessuna di queste tesi). Comunque no, il Berghain non vi farà diventare gay né etero né bisessuali né vi obbligherà all’infedeltà coniugale.

Perché proprio il Berghain?

La risposta più logica è “perché Andersson è andato al Berghain”, ma anche perché il Berghain è oggettivamente molto più di un locale: è un simbolo, un fenomeno di costume e un brand come migliaia di altri locali e feste simili nel mondo non sono mai stati e non saranno mai. Perché il Berghain è un’intersezione di sottoculture urbane e comportamenti che ha creato un universo di reazioni che lo rende impossibile da ignorare. Ci sono quelli che ci vanno, quelli che non ci andrebbero mai, quelli che vorrebbero ma non possono, quelli che ci vanno e dicono che non è più come una volta, quelli che ci vanno solo se saltano la fila, quelli che ti dicono a che ora bisogna andarci per essere “cool”. Il Berghain, in questo senso, è un po’ come la famiglia Kardashian: può anche non fregartene nulla, puoi non aver mai attivamente cercato alcuna informazione in merito e può irritarti anche solo la menzione del suo nome, ma comunque sai di cosa si tratta.


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Che cosa dice effettivamente l’articolo di Andersson?

Johan Andersson descrive molti aspetti del Berghain, dall’austerità dell’architettura alle leggendarie code, dal modo in cui si percepisce la divisione dei tipi di pubblico all’interno, durante la “Klubnacht” all’evoluzione delle droghe che più spesso vi si consumano, in particolare menzionando una crescente popolarità di droghe afrodisiache come il G, rispetto all’ecstasy, più popolare agli inizi della cultura dei rave e che rende più inclini all’affettività che non al sesso. Andersson sostiene la tesi che la combinazione di un’accresciuta eterogeneità del pubblico (ovvero: la Klubnacht del Berghain non è più solo una serata gay maschile, ma un evento che attira molte categorie di persone diverse), la disponibilità di droghe afrodisiache come il G e il mefedrone, l’esistenza di progressi farmacologici come la PrEP e, ovviamente, il fatto di trovarsi in un luogo scuro, dove la musica techno suona per tre giorni di fila e dove nessuno ti giudica negativamente per i tuoi comportamenti sessuali, creino una “costellazione farmacolibidinale” che rende più probabile la messa in atto di comportamenti che mettono in discussione le definizioni acquisite di orientamento sessuale.

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In altre parole, se sei in un posto dove per definizione di va per rilassarsi, divertirsi, drogarsi e fare sesso e dove nessuno ti giudicherà per come, quando, quanto e con chi farai sesso, può essere che ti venga voglia di avere rapporti sessuali con qualcuno che non avresti approcciato al matrimonio di tua cugina ad Abbiate Grasso. E attenzione, questo voluto paradosso non ha lo scopo di sminuire il valore delle osservazioni di Andersson né dei molti e oggettivamente interessanti spunti di lettura che il suo articolo contiene. Tutt’altro: per chi si appassiona agli studi di genere, questo è un discorso affascinante, che merita di essere approfondito per capire quanto ci sia di artificioso e arbitrario nei concetti di “normalità” che attribuiamo alle definizioni di orientamento sessuale e di comportamento sessuale accettabile. Il problema, ovviamente secondo la tesi di questo editoriale che nessuno si sognerebbe mai di chiamare “ricerca”, è che Andersson imbocca serenamente uno scivolone piuttosto grave ed esprime, senza poi elaborarlo, un concetto le cui implicazioni non dovrebbero essere prese alla leggera.

Andersson si sofferma brevemente a parlare di aneddotica, riferendo come alcuni suoi amici gli abbiano raccontato di avere avuto, all’interno del Berghain, rapporti sessuali con individui che normalmente non rientrano nelle loro preferenze (ovvero, presumibilmente, persone prevalentemente omosessuali hanno avuto rapporti eterosessuali e viceversa. Probabilmente soprattutto viceversa). Altri amici, invece, avrebbero riferito di restare sempre fedeli al proprio orientamento dichiarato. Scegliendo esplicitamente di ignorare l’idea di uno spettro dell’orientamento sessuale come quello della scala Kinsey, Andersson sceglie di pensare a una sessualità condizionata dal contesto. “Per coloro che si lasciano “travolgere”, la Klubnacht può essere una “terapia di conversione” al contrario: invece delle droghe che inducono la nausea [usate] in combinazione con l’erotismo omosessuale – una tecnica popolare nella cosiddetta “gay aversion therapy” – gli orizzonti erotici si espandono e si moltiplicano grazie alla combinazione di sostanze chimiche e di un sovraccarico multisensoriale di stimoli piacevoli. Poiché questa sessualità è specifica dell’evento, potremmo pensare che l’orientamento sessuale sia situato all’interno dell’edificio anziché all’interno dei singoli corpi.”

Ora, tralasciando il fatto che la gay aversion therapy sia non solo disumana, ma anche inefficace rispetto ai propri obiettivi e che l’unico motivo per cui le vittime, in alcuni casi, smettono di avere comportamenti omosessuali è che non vogliono correre il rischio di essere nuovamente torturate, suggerire che l’orientamento sessuale sia “situato all’interno dell’edificio” è una bizzarra combinazione di eccessiva reverenza per l’edificio stesso e di delegittimazione della volontà degli individui. Il fatto che in un certo luogo sussista un “contratto sociale” che permette di tenere comportamenti sessuali più liberi e disinibiti e che si creino le condizioni per permettere quel tipo di comportamento in chi lo voglia tenere è ben altra cosa rispetto al concludere, sulla base dell’aneddotica, che i comportamenti siano causati dal luogo in cui si verificano. Andersson sembra confondere, in sostanza, la correlazione con la causalità. Il motivo per cui la maggior parte delle persone non si comporta sul tram come si comporta nella darkroom del Berghain è perché, qualora lo facesse, commetterebbe un illecito e passerebbe un pomeriggio a spiegarlo a un paio di poliziotti perplessi. E il motivo per cui non ci si comporta in casa propria come ci si comporta nella darkroom del Berghain è che in casa propria, anche ammesso che si riesca a farci entrare un numero sufficiente di persone da garantire la necessaria varietà, dopo bisogna pulire i pavimenti e lavare le lenzuola. E poi sperare che nessuno se la sia svignata con il nostro laptop. Secondo le stesse linee di ragionamento, si potrebbe argomentare che è la presenza di una porta chiusa e di un vaso di porcellana che ci fa venire lo stimolo di espletare i nostri bisogni fisiologici, prova ne sia il fatto che la maggior parte di noi non lo fa nel salotto di casa e neppure nella sala d’attesa del dentista. O che sia la presenza del letto comodo a farci venire sonno, altrimenti tutti ci butteremmo a dormire nel carrello del supermercato.

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Conclusione

No, il Berghain non vi fa diventare gay. E, se siete gay e una volta, al Berghain, avete avuto un piacevole incontro con una persona non del vostro stesso genere, ma nonostante questo vi identificate ancora serenamente come gay e non come bisessuali, non è colpa né merito del Berghain. Semplicemente, l’incasellamento dei comportamenti sessuali è un arbitrio culturale che mal si incastra con la fluidità dell’esistenza. È come convertire in formato digitale un contenuto analogico. La realtà è analogica, la parola è digitale. Il desiderio è fluido, il linguaggio è binario. E per un argomento che richiede un tema non va bene un foglio A4 di domande a risposta multipla, perché poi vi sfugge la complessità e finite per diventare il tipo di persona che pensa che, se vedete un corpo nudo e vi viene voglia di toccarlo, sia colpa del corpo che non si è coperto. E poi capita che, quando ci si trova in un posto in cui non si deve rendere conto a nessuno se si sceglie di concedersi un piacere estemporaneo fra adulti consenzienti, si scelga di farlo. Chi ci guadagna? Noi giornalisti, che possiamo scrivere titoli come questo e, una volta tanto, fare un editoriale che non parli della fine del mondo, di guerre e di pandemie, ma di gente che si diverte nel fine settimana e poi passa un mese a chiedersi se quel divertimento abbia un qualche significato recondito.
Spoiler alert: non ce l’ha.

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