I bambini nella valigia: l’incredibile storia di Irena Sendler

Irena Sendler
Mariusz Kubik, CC BY 3.0 , via Wikimedia Commons

Dopo il 1940, non erano in molti a poter entrare uscire dal ghetto di Varsavia. Una delle poche eccezioni era Irena Sendler (o Irena Sendlerowa). Nella Polonia occupata, un’infermiera dall’aspetto poco appariscente, attraversava la città con una valigia in mano e un cane al guinzaglio, sfruttando un permesso speciale che le era stato concesso dalle autorità naziste per condurre ispezioni sanitarie all’interno del ghetto nel quale l’intera popolazione ebraica di Varsavia era stata confinata. Come spesso avviene, il cedimento nella rigida separazione voluta dalla potenza imperialista del Reich era stato dovuto alla paura, più specificamente alla paura del tifo. L’idea che questa malattia, che per secoli aveva sterminato popolazioni ed eserciti, potesse diffondersi in tutta la città o – peggio – in tutto il Paese proprio a partire dal ghetto fu, apparentemente, più forte del desiderio di mantenere una segregazione totale fra popolazione ebrea e non ebrea della città polacca.

Era normale che Irena Sendler si recasse nel ghetto di Varsavia: la ventenne era infatti impiegata presso il comune, nel dipartimento del welfare e della sanità. Condurre ispezioni sanitarie e prendere misure atte a prevenire il diffondersi di malattie contagiose era il suo lavoro. E, d’altra parte, quando 400.000 persone vengono ammassate in una zona ristretta e senza accesso elle più elementari risorse necessarie alla sussistenza, il rischio di epidemie è più che reale.

E in effetti la giovane Irena svolgeva scrupolosamente il lavoro per il quale era stata assunta: assisteva i malati, valutava le condizioni delle abitazioni, dava indicazioni per migliorare le misure igieniche e portava all’interno del ghetto medicinali e presidi sanitari.

ierna sendler
Murale in ricordo di Irena Sendler a Rzeszów (Voivodato della Precarpazia, Polonia) in Mikołaja Kopernika.
Emilio2005, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

I bambini nella valigia

Quello che gli occupanti tedeschi non sapevano e che, dopo il 1942, nella valigia di Irena, all’uscita dal ghetto, non c’erano medicine e strumenti sanitari, ma, sempre più spesso, neonati ebrei. Sendler, infatti, si era unita allo Żegota, il consiglio clandestino per il sostegno agli ebrei istituito nell’autunno del 1942, quando già 280.000 ebrei erano stati deportati da Varsavia a Treblinka. Approfittando della sua posizione, la giovane infermiera aveva istituito un efficace sistema di aiuto: all’ingresso nel ghetto contrabbandava al suo interno cibo e generi di conforto, all’uscita portava con sé neonati o bambini molto piccoli, che poi provvedeva a nascondere una volta arrivata nella parte “ariana” di Varsavia. Irena Sendler aveva anche addestrato il proprio cane, che portava sempre con sé, ad abbaiare ferocemente all’avvicinarsi di guardie e soldati, così da coprire eventuali vagiti o rumori prodotti dai bambini nascosti nella valigia e al tempo stesso dissuadere i militari dall’avvicinarsi per eseguire controlli eccessivamente scrupolosi. Se i bambini troppo grandi per essere trasportati in questo modo, Irena li aiutava a scappare attraverso la rete fognaria.

Molto tempo dopo, Irena Sendler descrisse come strazianti le conversazioni nelle quali convinceva i genitori a separarsi dai propri figli. Questa scelta drammatica era, di fatto, l’unico modo di offrire ai bambini una qualche possibilità di sopravvivenza. Eppure, quando i genitori le chiedevano che garanzie ci fossero che i loro figli si sarebbero salvati, Irena era costretta a rispondere “nessuna”: il rischio dell’intera operazione era sempre altissimo e il consiglio, gli attivisti e tutti i rifugiati da loro nascosti e protetti avrebbero potuto essere scoperti da un momento all’altro. Eppure, anche così, la fuga era l’opzione migliore, dal momento che l’alternativa era la morte certa, dopo la deportazione nel campo di sterminio di Treblinka o, in molti casi, la morte per fame o malattia all’interno del ghetto.

La “lista” di Irena Sendler

Una volta fuggiti dal ghetto, i bambini ebrei – così come i numerosi adulti che lo Żegota riuscì a portare in salvo, erano costretti a sopravvivere in clandestinità. Il consiglio trovava loro nascondigli adeguati e forniva cibo e cure mediche. Irena Sendler – nome in codice Jolanta – sfruttò i contatti che la sua professione le aveva permesso di creare con orfanotrofi e istituti per l’infanzia per trovare sistemazioni per molti dei bambini “contrabbandati” fuori dal ghetto. Molti dei piccoli profughi furono inviati all’orfanotrofio Rodzina Marii di Varsavia e a diversi istituti religiosi gestiti da suore nelle città vicine.

Per i giovani clandestini venivano create identità fittizie con nomi “ariani”, tuttavia, Irena Sendler volle sempre assicurarsi che i bambini potessero avere una speranza di riappropriarsi della loro vera identità e riabbracciare le famiglie dopo la guerra. Per questo motivo, registrò i nomi di tutti i bambini e delle famiglie a cui venivano affidati in un elenco che oggi viene chiamato Lista di Sendler, lo trascrisse su fogli che chiuse in barattoli di vetro e lo seppellì sotto un albero di mele. I ricongiungimenti, purtroppo, furono possibili solo in minima parte, dal momento che pochissimi ebrei sopravvissero alle deportazioni di massa e poi alla completa distruzione del ghetto di Varsavia.

L’arresto e la fuga

Il 20 ottobre 1943, Irena Sendler venne tradita, scoperta e arrestata dalla Gestapo. Prima di essere condotta in carcere, riuscì a nascondere materiale di importanza fondamentale, come l’archivio degli indirizzi dei bambini salvati dallo Żegota, oltre a considerevoli somme di denaro necessarie per finanziare il sostentamento degli ebrei clandestini. Brutalmente torturata, Sendler non rivelò mai nessuno dei nomi degli altri attivisti né altre informazioni sulle sue attività clandestine.


[© Lars K Jensen on Flickr / CC BY 2.0]
L’entrata del campo di concentramento di Buchenwald [© Lars K Jensen on Flickr / CC BY 2.0]
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Irena fu condannata a morte e rinchiusa nella famigerata prigione di Pawiak, ma gli attivisti clandestini del consiglio riuscirono a farla fuggire proprio mentre veniva condotta sul luogo dell’esecuzione, corrompendo un funzionario delle SS. La guardia stordì Irena e la depositò, priva di sensi ma viva, sul ciglio della strada, dove i suoi compagni la recuperarono.

Dichiarata morta, Sendler continuò le sue attività, pur sapendo che le autorità la tenevano d’occhio, fino a quando non fu costretta a entrare in completa clandestinità – al punto da non poter neppure partecipare al funerale di sua madre.

Dopo la guerra

Non si conosce il numero esatto dei bambini salvati da Sendler, ma si stima che siano stati circa 2500.

Irena Sendler ha parlato della sua attività solo molti anni dopo la fine della guerra, dicendo principalmente che si rammaricava di non aver potuto fare di più e di non considerarsi un’eroina. Sendler è morta nel 2008 ed è stata definita da molti “la madre dei bambini dell’Olocausto”. Il 19 ottobre 1965 le fu conferito dallo Yad Vashem il titolo di Giusta tra le Nazioni.

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