Intervista con Mario Desiati, Premio Strega 2022 con “Spatriati”: “Berlino polarizza i sentimenti”

Lo scrittore Mario Desiati, vincitore del Premio Strega 2022 con "Spatriati".

di Lucia Conti

Mario Desiati è uno scrittore e giornalista italiano, vincitore del Premio Strega 2022, con il romanzo “Spatriati” (Einaudi). Io l’ho conosciuto sette anni fa, a Berlino, a casa di un’amica, quando il libro cominciava appena a prendere forma, nella sua mente e nelle sue intenzioni.

All’epoca Desiati viveva ancora a Berlino, io continuo a viverci, ma per molti aspetti siamo entrambi, e forse saremo sempre, due “spatriati”. Ne parliamo in un pomeriggio di luglio che scivola verso il fine settimana. Io indosso camicia e giacca. Perché l’estate, nella capitale tedesca, non è sempre calda. Parliamo di questa città nordica, che è uno dei due poli geografici e sentimentali di “Spatriati”, parliamo di scelte, del suo libro e di misticismo, di letteratura pugliese e di orizzonti sghembi. Gli unici che si addicano a chi vive di equilibri instabili.

Se volete saperne ancora di più, vi invitiamo a seguire la nostra live di venerdì. Continueremo a chiacchierare con Mario Desiati, questa volta in diretta, e cercheremo di immergerci nelle atmosfere del suo libro e nella storia dei suoi personaggi.


vinicio marchioni

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Mario, noi ci siamo conosciuti, qualche anno fa, in quel di Prenzlauer Berg. A che punto era, allora, la genesi del tuo romanzo?

Noi ci siamo conosciuti nell’autunno del 2015, se non erro, quindi a quell’epoca sapevo solo che stavo scrivendo un libro che si sarebbe chiamato “Spatriati”. Avevo deciso solo il titolo, al massimo avevo buttato giù degli appunti, perché questo romanzo è nato così, con un titolo “secco”. Nella mia vita era successo solo un’altra volta, con “Ternitti”, anche quello un libro dal titolo dialettale. Mi piaceva la parola “spatriati” e mi piaceva l’idea che esprimeva. Quando arrivai a Berlino si parlava solo di “expat”, nella mia cerchia, e mi venne spontaneo pensare al nostro “spatriati”, che da noi vuol dire anche molto altro. È un termine che esprime un’interruzione, un essere fuori dalle regole, con accezione negativa… anche quando due persone si separano, si dice che “si sono spatriate”.

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La copertina di “Spatriati”, Mario Desiati.

Nella parola “spatriati”, che appartiene al dialetto di Martina Franca, tua terra d’origine, c’è anche lo schwa finale, giusto?

Sì, perché nel dialetto martinese, ma anche in altri dialetti, non c’è numero né genere. Quindi ho usato proprio il segno della grammatica martinese, nel titolo del secondo capitolo, “spatriètə”, mentre ho lasciato la parola “spatriati” nel titolo del romanzo, per creare quell’ambiguità che esiste in rapporto al termine italiano. Perché soprattutto la protagonista di questa storia, Claudia, è un’expat da antologia. Va via dal suo Paese intorno ai 30 anni e non ha nessuna intenzione di tornare. Comunque, per tornare alla tua domanda iniziale, quando ci siamo conosciuti sapevo che avrei scritto il libro.

All’epoca vivevi a Berlino, giusto?

Sì, avevo appena finito il corso di tedesco, livello A2, puoi immaginare come fossi messo. In più, stavo iniziando a capire cosa fare in città e dove muovermi.

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Il Berghain nel marzo 2020, dopo la chiusura dovuta al Covid19. Vero e proprio tempio della techno e della cultura “alternative” della capitale tedesca, è menzionato anche in “Spatriati”, di Mario Desiati. Photo credits: EPA-EFE/HAYOUNG JEON

E quanto tempo ci sei rimasto?

Continuativamente, fino al 2017, poi ho cominciato a vivere tra i due Paesi, anche perché ho una passione per quel periodo che a Berlino va dalla primavera all’autunno. Questo è il terzo anno della mia vita in cui non mi trovo a Berlino in estate. Dal 2017 fino alla pandemia, ho avuto l’abitudine di salire a fine maggio o inizio giugno, per poi tornare in Italia a metà ottobre. Quest’anno, invece, sono stato a Berlino da ottobre a dicembre.

Parliamo della città. I tuoi protagonisti attraversano gli spazi che sono un po’ il simbolo della “controcultura berlinese”, dalle atmosfere post-industriali, ai templi della techno, ai party privati. La tua esperienza di Berlino è simile?

La mia esperienza è molto banale, nel senso che ho vissuto un periodo in cui Berlino stava cambiando e adesso è cambiata anche di più. Anche voi lo state vivendo, immagino. Di sicuro, lo scorso autunno ho avuto questa impressione. È un cambiamento raccontato benissimo dal mercato immobiliare, molte zone sono completamente “residenzializzate”, la gentrificazione è un tema, non c’è dubbio. In realtà lo si diceva già nel 2015, incontravi quelli che erano venuti prima e ti dicevano che Berlino non era più come 20 anni prima… non so se l’hanno detto anche a te.

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Lo dicono sempre…

Ecco, appunto. Io non voglio cadere in questo cliché, però è vero che da un lato Berlino si sta aprendo, ma dall’altro alcune sue caratteristiche tipiche, per quanto ci siano ancora, vanno cercate e sono più difficili da trovare. Parlo della Berlino “povera ma sexy”, per usare un altro cliché.

Ad ogni modo io avevo un legame quasi spirituale con la città. Ci sono dei luoghi, nella vita, che ti appartengono e lo senti chiaramente, anche se non ci sei nato, anche se sono molto lontani da te, geograficamente. Io l’ho sentito quando sono arrivato a Berlino. Anche se avevo difficoltà con la lingua tedesca, evitavo l’inglese e mi “buttavo”, percepivo una profonda connessione con la città. Una città in cui senti molto forte il peso della gioia e quello della sofferenza. Se sei depresso, ti butta ancora più giù, se sei di buon umore, ti sta fare ancora meglio.

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E questo lo dici nel libro, espressamente

Esatto, Berlino polarizza i sentimenti. È una città nordica, dove da novembre in poi c’è più buio che luce, almeno fino ad aprile, in cui fa freddissimo. Però probabilmente ci sarà un motivo, se è anche la città in cui finivano tutti gli scrittori, a inizio novecento. Ed una città in cui si percepisce anche un grande senso di morte, per via del suo passato. Eppure è una città che riesce a essere anche giovane, perché è come se fosse ripartita, nel ’91.

E andando indietro penso alla Berlino militarizzata, da un lato, ma dove i giovani dell’ovest non facevano il servizio militare, dove venivano incoraggiate le comunità hippy, alla fine degli anni sessanta e negli anni settanta, e a come queste cose si mischiassero con una storia pesante, con quanto accaduto tra le due guerre, durante la seconda guerra mondiale e durante la guerra fredda, di cui Berlino era il cuore. Quando posso, porto sempre chi viene a trovarmi a Berlino al memoriale di Bernauer straße, dove ci sono le foto di chi ha cercato di superare il Muro e dove c’è anche la foto di un bambino italiano, che ricorda come quella tragedia riguardi tutti e non abbia risparmiato nessuno.

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Berlino è anche una città che ti mette in gioco e ha un rapporto straordinario con il concetto di fallimento, che è uno dei temi del romanzo e anche il tema della mia vita, in quel periodo, perché mi sentivo reduce da un fallimento sia personale che professionale. A Berlino si percepisce un’assenza di giudizio, rispetto a quello che sei o puoi aver fatto, si parte tutti dallo stesso livello. O almeno questa è stata la mia esperienza.

I tuoi personaggi vivono una tensione costante verso obiettivi irraggiungibili e in amore ho l’impressione che Francesco sia costantemente respinto. Sei vicino allo spirito romantico tedesco o Francesco è un masochista da manuale?

Hai toccato una delle mie passioni letterarie, perché rileggo ancora poeti del romanticismo tedesco e ho chiamato Sehnsucht una delle parti del romanzo ambientate a Berlino. In realtà, su qualunque aspetto della vita di Francesco, secondo me influisce anche il suo imprinting cristiano-cattolico, anche se lui torna in Italia non da sconfitto, ma da sabotatore. Vuole essere una scheggia impazzita in un contesto in cui sente di star bene, ma dopo aver fatto un’esperienza in una città che che gli ha permesso di liberarsi di alcune sovrastrutture.

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Francesco Veleno è stato un personaggio molto complicato da costruire, perché io avevo principalmente Claudia in testa e Claudia mi somiglia molto, anche per vie delle cose che le accadono, nella vita.

Questo è interessante. Quasi tutti ti associano a Francesco, per ragioni di genere e di “io narrante” e invece… scoop! Tu sei Claudia. Non il narratore passivo e osservatore, in cui quasi tutti gli scrittori si identificano, ma il personaggio che rompe gli schemi…

C’è ovviamente qualcosa di mio anche in Francesco, c’è sempre un elemento biografico in tutti i personaggi di uno scrittore. Nel caso specifico, però, la parabola di Claudia somiglia molto di più a me, alle cose che mi sono successe, alle relazioni che ho vissuto, mentre Francesco è più una proiezione. È un personaggio su cui ho lavorato molto, perché è lui che racconta l’intera storia. Pensa, però, che quando ci siamo conosciuti, il libro era in terza persona e Francesco non esisteva ancora: c’era solo Claudia.

Quando è arrivato, Francesco?

Francesco è stato un lavoro di scrittura. Avevo bisogno esattamente di un personaggio un po’ passivo e osservatore per raccontare Claudia, perché il problema del romanzo, e il motivo per cui sono passati cinque anni tra “Candore” e “Spatriati”, era proprio trovare la “voce giusta”. Ho passato quasi due anni a capire come raccontare questa storia.

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All’inizio l’ho fatto in terza persona, poi con due prime persone, poi a un certo punto con una prima e una falsa terza… alla fine ho trovato Francesco. Che aveva, come dici molto bene tu, lo sguardo di chi vede altri fare cose che superano il limite e alla fine trova il coraggio di fare lo stesso.

In “Spatriati”, i rapporti più autentici vengono sempre rappresentati come estranei alla dimensione della monogamia. Come li descriveresti e pensi che la liberazione sessuale, per Francesco, possa essere l’altra faccia del suo spirito cattolico?

Proprio perché il libro si chiama “Spatriati”, anche le relazioni descritte sono “spatriate”, fuori dalla norma. Anche i due momenti erotici che coinvolgono i due protagonisti, sono comunque non conformi. La loro è un’apertura a tutto quello che può esistere senza una definizione. Parliamo di persone che non si definiscono mai, se ci provano entrano nella dimensione della nevrosi.

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Per quanto riguarda la religione, è un elemento importante, perché c’è un aspetto estetico nella religione cattolica e cristiana, a cominciare del vestiario, che noi spesso sottovalutiamo e invece contiene dei messaggi. Messaggi che possono essere anche fraintesi, come capita a Francesco quando può indossare finalmente una tonaca, cioè una gonna, e liberare le gambe, o come quando la processione gli appare come un gruppo di uomini seminudi, che si preparano a sollevare le statue cosparsi di borotalco. Una situazione non così infrequente rispetto a quello che ho vissuto anch’io, nella mia adolescenza di praticante. In questo, forse, ero simile a Francesco: percepivo nel rito della vestizione e nei paramenti sacri altri significati, gli stessi indagati dalla sensibilità di Francesco.

Che in processione porta la statua di Giuda, da brava scheggia impazzita…

Quello mi ha scioccato! È un fatto vero, mi è stato raccontato quando ero ragazzo. Un tempo, in paese, la statua di Giuda veniva “linciata”, durante la processione del Venerdì Santo. Ora non si fa più, ma mi piaceva che nella scena finale del libro Francesco, il “sabotatore”, portasse a spalla la statua di Giuda.

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I trulli di Martina Franca, paese d’origine di Mario Desiati e del protagonista di “Spatriati”

Non è facile emergere come scrittori. Quale sentiero hai seguito e in quale circuito letterario, se ce n’è uno, si inserisce “Spatriati”?

Io ho un storia diversa per ogni libro che ho scritto. Da due romanzi a questa parte, quelli pubblicati con Einaudi, scrivo senza avere contratti con nessun editore, senza pressioni, è una mia scelta. Penso solo al libro che sto scrivendo e lo sottopongo a qualcuno solo quando lo ritengo pronto. A quel punto il libro viene letto, ci si può lavorare per qualche mese o anche un anno, come in quest’ultimo caso, visto che c’è stata anche la pandemia di mezzo. Ho chiuso “Spatriati” a febbraio del 2021. Avendo già un buon rapporto con Einaudi, che aveva pubblicato “Candore”, ho sottoposto a loro la prima stesura.

Quanto alla domanda sul circuito letterario, nel romanzo ho inserito un capitolo finale che si chiama “Stanza degli spiriti”. È una cosa un po’ pornografica, nel senso che contiene riferimenti agli scrittori che hanno “creato” lo sguardo del mio romanzo, che è una cosa che non si dovrebbe dire, né far trasparire. Ma a me serviva, come in una seduta spiritica, per richiamare tutti gli scrittori evocati da Claudia e che sono in gran parte sconosciuti ai più, perché fanno parte di una letteratura pugliese considerata secondaria o addirittura minore. Volevo riconoscerne l’importanza.

Tra l’altro mi hai fatto scoprire dei bellissimi passaggi tratti da “Il pensiero meridiano”, che penso leggerò…

Lucia, tu devi leggere assolutamente “Il pensiero meridiano”, ma anche “Analisi in famiglia”, di Maria Marconi. Impazzirai, credimi. Mi dirai “questo è un libro incredibile!”.

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