Pussy Riot dal vivo a Berlino: un resoconto non obiettivo

Non è facile raccontare il concerto delle Pussy Riot a Berlino. Ci sono troppi concetti su cui mettersi d’accordo, a partire dall’idea stessa di concerto. Troppo politico per essere solo un concerto, con sfumature di quello che potrebbe sembrare un rito laico, una catarsi collettiva, un momento di comunione che serve a rendersi conto della precarietà in cui viviamo e che dà un senso incredibilmente concreto all’espressione “ballare su una polveriera”. Prima ancora di iniziare, quindi, abbandoniamo ogni pretesa di obiettività: quella che vi apprestate a leggere è la trasposizione di un’esperienza personale, arricchita – si spera – da una quantità sufficiente di informazioni oggettive per rendere l’idea dell’evento che si è tenuto ieri, giovedì 12 maggio, al Funkhaus di Treptow-Köpenick.

Masha Alyokhina, appena evasa, torna sul palco con “Riot Days”

La data berlinese è stata la prima del tour “Riot Days” nonché la prima esibizione dal vivo del collettivo artistico russo da due anni a questa parte. La più attesa sul palco era Maria Vladimirovna “Masha” Alyokhina, da pochissimi giorni sfuggita agli arresti domiciliari e scappata in Lituania attraverso la Bielorussia, per poi approdare in Germania. Alyokhina è anche l’autrice del libro “Riot Days” intorno al quale è strutturato lo spettacolo. Rispetto al testo originale, però, alla scaletta che verrà portata in tour in tutta Europa, è stato aggiunto un altro brano, dedicato alla guerra in Ucraina e in particolare alla strage di Bucha. I proventi dell’intero tour e della vendita dei libri – viene precisato all’inizio – saranno devoluti per la maggior parte al sostegno di un ospedale in Ucraina.

Pussy Riot

Chi sono i “rivoltosi” che vanno a vedere le Pussy Riot?

Da dove si inizia a raccontare un evento come questo? Forse dal fatto – semplice quanto non scontato, che fra le 800 persone riunite nel capannone del Funkhaus ce ne sono moltissime che palesemente non mettevano piede a un concerto da almeno due anni. Nessuno si ricorda bene come ci si comporta in questi casi. Sul palco si suona un punk elettronico (per altro di ottima qualità a livello musicale, cose che raramente viene sottolineata quando si tratta delle Pussy Riot), ma sotto non c’è il pubblico di un concerto punk. Fra le prime file si fa strada una signora anziana e minuta con l’aria da professoressa di matematica “se sto dietro non vedo”, dice scusandosi. Accanto a me una ragazza piange per quasi tutto il concerto e risponde in russo ai testi delle canzoni. Dall’altro lato un uomo tedesco di mezza età ha portato con sé una cartellina rigida, sulla quale ha appoggiato un blocco da disegno, al quale ha fissato con una clip un calamaio, nel quale intinge un pennino. Per tutto il tempo disegna ritratti della band sul palco e del pubblico, impassibile, mentre una folla gli balla intorno, senza mai urtarlo. Di tanto in tanto qualcuno chiede di vedere i suoi disegni, lui li mostra senza parlare, sorridendo. C’è una fetta consistente della comunità queer berlinese alternativa (ovvero tendenzialmente punk e trans, più che modaiola e strettamente omosessuale), ma anche una vasta schiera di indefinibili. Si parla tedesco, inglese, russo, portoghese, spagnolo, italiano, francese.

 

Storia di una resistenza: dalla Cattedrale alla colonia penale

Alyokhina, oltre a essere l’autrice dei testi, è il volto e la leader di un gruppo compatto, che sa tenere il palco con grande consapevolezza scenica e lo fa raccontando una storia che tutti conoscono almeno in parte. Tutti i testi delle canzoni, rigorosamente in russo con sottotitoli in tedesco, altro non sono che il racconto in prosa, freneticamente ritmata, delle vicende che hanno portato dall’elezione di Putin alla performance delle Pussy Riot nella Cattedrale di Cristo Salvatore nel 2012, passando per il successivo arresto e per i due anni di colonia penale che ne sono seguiti. Il resoconto alterna momenti di attenzione chirurgica per il dettaglio, che fanno vivere al pubblico gli aspetti più brutali dei campi di lavoro ancora oggi presenti in Russia, a slogan rivoluzionari. L’esposizione al freddo, l’isolamento, la privazione del sonno, l’abuso fisico e psicologico sono raccontati senza compiacimento, ma in modo meticoloso. La storia dell’arresto è accompagnata dalle ormai celeberrime immagini delle Pussy Riot che si esibiscono con la chitarra elettrica in chiesa e vengono trascinate via dalla polizia. Le fasi del processo e quelle della detenzione sono raccontate invece da immagini riprese all’esterno delle carceri e da alcune all’interno dei tribunali.

Quello che non abbiamo capito del concetto di “censura”

È veramente difficile per chiunque, dal caldo confortevole e miope della sonnolenta pace europea, voglia occuparsi di questioni geopolitiche, reggere lo sguardo di queste giovani donne (e un giovane uomo, il sassofonista) che hanno sperimentato in prima persona le conseguenze di un regime che punisce i dissidenti e li usa come esempio e deterrente per il resto della popolazione. All’occidente piace dissertare di limitazioni alla libertà d’espressione e gridare alla censura – meglio se da molteplici salotti televisivi, nei quali sia possibile raccontare nel dettaglio a un’intera nazione le mille sfumature del proprio venir censurati. Poi ci si trova ad assistere a un concerto e ci si rende conto che, per un’azione simile a quella a cui stiamo assistendo, Alyokhina e le sue compagne sono state private della libertà e del diritto all’autonomia del proprio corpo per due anni (e nuovamente, a più riprese, dal 2014 a oggi). Per aver suonato, per aver parlato, per aver espresso contrarietà al governo in carica. Tutte cose che noi disgraziati oppressi europei facciamo quotidianamente, sui social, dal divano di casa. Poi si ascolta Alyokhina urlare e ci si ricorda che esprimere apertamente la propria opposizione a Putin porta a ritrovarsi nude in una stanza con un gruppo di uomini che esaminano il tuo corpo alla ricerca di “oggetti di contrabbando” e che, alla richiesta di un po’ di privacy, ridono e rispondono “eppure non ti sei vergognata di mostrare le gambe in chiesa”.


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Le Pussy Riot, Putin, la guerra e la Vergine Maria

Il ritmo della narrazione è incalzante e la cronaca fredda dei fatti è punteggiata da incitamenti alla resistenza. “Hanno storpiato il nostro Paese” gridano le Pussy Riot “ma gli storpi sono più forti”. La scritta “Crush Putin!” compare sullo schermo, mentre la frase viene ripetuta in russo. Non mancano le accuse dirette di connivenza al patriarca Kyrill I, capo della chiesa ortodossa, per aver sostenuto il regime e aver ribadito più volte la necessità di punire severamente la blasfemia e la dissidenza. “Vergine Maria, sii femminista!” continuano i cori.

È difficile parlare di un picco emotivo di questo concerto, che si articola come un unico climax dall’inizio alla fine. L’ultimo brano, quello dedicato alla guerra, è probabilmente quello a cui il pubblico risponde con più veemenza. “Mamma, qui non ci sono nazisti, perché siamo in guerra?” o “Quindici anni [di galera] per un cartello pacifista”. “Sono certo che non è vero che l’80% dei russi supporta questa guerra” ha dichiarato, prima dell’inizio della performance, l’organizzatore del concerto. Lo stesso dicono le artiste sul palco. Quindici anni di galera per un cartello pacifista sembrano un ottimo deterrente, almeno a vederli da qui, dove quindici anni di galera per un’opinione non li sconta nessuno. Non li sconta chi pensa che la guerra sia tutta colpa della NATO imperialista. Non li sconta chi pensa che la guerra sia tutta colpa dell’imperialismo di Putin e delle folli teorie di Dugin, che tanto gli sono care. Non li sconta chi pensa che il governo ucraino sia un regime nazista e non li sconta chi pensa che Zelensky sia l’eroe dei nostri tempi. Non li sconta chi si augura un Putin in ogni Paese europeo e non li sconta chi augura a Putin la peggiore delle morti. “Impossibile viverci, devastante lasciarla”, dice Alyokhina della Russia.

Non ci sono grandi discorsi né prima né dopo. Tutto quello che c’era da dire è stato detto durante l’esibizione. E si torna a casa con l’impressione che ci sia ancora qualcosa che non abbiamo capito o ancora un compito che non abbiamo portato a termine. E mentre il tram si lascia alle spalle i palazzoni residenziali di Köpenicker Chaussee e si sposta verso ovest, fra i bar e i ristoranti ancora aperti, tutta questa pace sembra finta. E forse lo è.

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