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Why Are You Angry? – Mostra “critica” su Paul Gauguin all’Alte Nationalgalerie di Berlino

di Camilla Manna

La mostra “Why are you Angry?” è una bellissima esposizione su Paul Gauguin ospitata dall’Alte Nationalgalerie di Berlino. La mostra, disponibile fino al 10 luglio 2022, è basata sul concept della Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen ed è curata da Anna Kærsgaard Gregersen (Ny Carlsberg Glyptotek) e Ralph Gleis (Alte Nationalgalerie).

Oltre che offrire un viaggio nell’opera di Gauguin, la mostra vuole anche mettere in discussione i presupposti colonialistici con cui lo stesso artista ha animato la sua idea di “paradiso esotico”. L’ingresso è possibile dal martedì alla domenica e dalle 10.00 alle 18.00. I biglietti costano 12 euro, ridotti, 6 euro. 


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La pittura di Paul Gauguin all’Alte Nationalgalerie, con la mostra “Why are you Angry?”

Non aspettatevi una retrospettiva sull’arte di Paul Gauguin, potreste rimanere delusi. Di grandi dipinti esposti, sebbene tra i più celebri, se ne contano sulle dita di una mano, ma l’opportunità che ci offre questa mostra è un’altra: in un percorso che utilizza l’opera di Gauguin quasi come un espediente, siamo costretti ad osservare i suoi dipinti con uno sguardo finalmente più moderno interrogandoci sulle idee occidentali di esotismo ed erotismo, sull’appropriazione culturale, sul colonialismo e sul mito dell’artista selvaggio.

Gauguin e la Polinesia

Paul Gauguin (Parigi 1848 – 1903 Atuona/HivaOa) nel 1891 abbandonò la moglie e i cinque figli lasciando la metropoli dell’arte Parigi per intraprendere un viaggio alla ricerca di sé stesso e del paradiso perduto nei Mari del Sud della Polinesia francese, dove dipinse i suoi quadri più iconici. Nell’isola di Tahiti realizzò “Tahitian Fisherwomen” (appartenente alla collezione della Nationalgalerie) e gli esposti “Tahitian Women” del 1891 (dal Musée d’Orsay), “Parau Api. What’s news?” del 1892 (dalla Staatliche Kunstsammlung di Dresda), “Areavea no varia ino. The Amusement of the Evil Spirit” del 1894 e “Vahine no te Tiare. The Woman with the Flower” del 1891 (entrambi dalla Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen).

Paul Gauguin, “Vahine no te Tiare. The Woman with the Flower” (1891)

Ricerca spirituale e ricerca artistica si fondono in un tutto unico che lo porta alla creazione di uno stile completamente nuovo, tra l’impressionismo e il modernismo, di cui fu pioniere. Come accadde per molti suoi contemporanei, vedi il caso dell’amico Van Gogh, l’innovazione pittorica tuttavia non venne apprezzata nell’immediato e il successo lo raggiunse solamente dopo la morte, avvenuta nel 1903 nell’isola di Tahiti dove aveva trascorso quasi ininterrottamente gli ultimi trent’anni della sua vita.

Nelle opere qui esposte i colori accesi ed in forte contrasto, le linee marcate che contornano forme voluttuose, gli scenari paradisiaci popolati quasi esclusivamente da donne ornate di bellissimi e caratteristici fiori frangipani, colte quasi sempre in stato di quiete, rappresentano qualcosa di assolutamente innovativo per l’epoca. Tutto ciò rispecchiava in pieno quello che era l’ideale del paradiso terrestre come lo si immaginava che fosse nei lontani Mari del Sud, con una sottile nostalgia di stampo imperialista.

Paul Gauguin, “Parau Api. What’s news?” (1892)

Il paradiso colonialista

Gauguin, perennemente insoddisfatto dalla vita occidentale, ormai privo di stimoli e assillato dalle difficoltà economiche, decise di intraprendere il tanto agognato viaggio alla ricerca delle origini e inseguire il sogno dell’artista ribelle in un mondo libero dai condizionamenti occidentali.

L’artista non era peraltro un viaggiatore sprovveduto: oltre ad essere cresciuto a Lima, in Perù, si era già imbarcato da giovane in una nave mercantile e aveva visitato le Indie e il Brasile, oltre ad aver vissuto brevemente a Panama e a la Martinica. Aveva fatto rientro a Parigi proprio nell’anno in cui la città ospitava l’Exposition Universelle, ma lì si era ancor più convinto che la felicità andasse cercata lontano dall’Europa: la scelta era così ricaduta su Tahiti dove sperava di poter vivere un ritorno ad uno stile di vita primitivo.

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Paul Gauguin, Tahitian fisherwomen (1891)

Ma neanche due settimane dopo il suo arrivo, con la morte dell’ultimo sovrano indigeno, l’amministrazione dell’isola passò completamente in mani francesi e si infranse il sogno del paradiso inviolato. L’agognato mondo primitivo si scontrò con la dura realtà colonialista e Gauguin, in quanto cittadino francese in una colonia della Francia, si ritrovò ad essere oggettivamente corresponsabile del sistema di sfruttamento europeo che stava distruggendo l’oggetto del suo desiderio. Quello non era più un paradiso terrestre incontaminato, bensì un mondo oramai violato dalla colonizzazione e assoggettato ai dettami della civiltà moderna.

Deluso quindi dal sistema che lui definiva “ipocrisia protestante” decise di ricreare, almeno nelle sue opere, un personale paradiso terrestre: affascinato, curioso ed ammaliato dall’esotico, ma pur sempre filtrato dall’occhio del colonizzatore.
Ne è un esempio la statuetta indigena che Gauguin comprò all’esposizione universale di Parigi e modificò secondo i suoi canoni, aggiungendo orecchini e grandi occhi vitrei e firmandola con il suo nome, secondo il moderno concetto di “appropriazione culturale”.
Rappresentò inoltre scene idilliache omettendo appositamente gli elementi occidentali. Voleva presentarsi in patria come profondamente integrato nel nuovo mondo, ma titolando le sue opere nella lingua locale commetteva errori ortografici.

Paul Gauguin, “Areavea no varia ino. The Amusement of the Evil Spirit” (1894)

Si dimostrò infine affascinato dalla bellezza femminile esotica che divenne soggetto quasi esclusivo della sua produzione e interessato all’emancipazione delle donne indigene ma sappiamo che sposò tre giovanissime ragazze tutte minorenni di dodici, tredici e quattordici anni ed ebbe da loro anche dei figli.
Certi aspetti omessi dalla narrazione classica dell’artista vengono opportunamente non tralasciati in questo percorso espositivo. Nella convinzione che bisogna scindere l’artista dalla sua opera, è necessario imparare a farlo, cercando di conoscere anche il suo mondo, per poter poi guardare all’opera in maniera più completa.

La mostra confronta Gauguin con artisti contemporanei, anche “critici”

Tutte queste contraddizioni vengono poi sottolineate dal confronto con le posizioni di artisti contemporanei, sempre esposte in mostra.

Nel film “Why are you angry?”, del duo britannico Nashashibi/Skaer ad esempio, l’oggetto dei dipinti di Gauguin diventa soggetto, mostrandoci una sorta di vista delle opere “dietro le quinte”. Scavando il quotidiano dell’universo femminile le autrici ci privano però, con la mancanza del sonoro, dei racconti delle protagoniste (o forse non sapremmo comunque comprenderli?) mettendoci di fronte all’incomunicabilità tra le culture e tra i sessi.

Nel suo discorso di ringraziamento, la poetessa neozelandese Selina Tusitala Marsh, in “Guys like Gauguin” del 2009, sfoga secoli di assoggettamento culturale e ingiustizie verso i popoli colonizzati, alludendo anche criticamente alla passione di Gauguin per le giovanissime donne indigene. La giapponese/samoana Yuki Kihara poi, in un talk show di cinque puntate dal titolo “First Impressions: Paul Gauguin”, del 2018, raccoglie le candide impressioni di cinque rappresentati della comunità fa’afafine (termine samoano per il indicare il “terzo sesso”) in merito ad alcuni dei più celebri dipinti di Gauguin.

Difficile definire tutto ciò (solo) una mostra su Gauguin. Si tratta di una scelta espositiva che può incontrare maggiore o minore condivisione, ma che indubbiamente coglie un’opportunità: mette in discussione il mito dell’”artista selvaggio” creato da Gauguin stesso, lo smaschera nell’ottica del dibattito postcoloniale e utilizza l’arte come veicolo per altri messaggi, che è ciò che mostre e musei del futuro dovrebbero fare.

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