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Franco Grillini presenta “Let’s Kiss” all’Italian Film Festival di Berlino. La nostra intervista

In Italia, in questi giorni, si è parlato molto della mancata approvazione in Senato del DDL Zan, alla quale sono seguite numerose proteste che hanno portato in piazza migliaia di persone. Questo potrebbe essere percepito come il più recente capitolo di una storia lunga – quella del movimento lgbt italiano – che ha attraversato i decenni tentando di affermare il diritto all’esistenza e al rispetto per una comunità che spesso, nel nostro Paese, ha faticato a far sentire la propria voce. Testimone di questa storia è Franco Grillini, presidente onorario di Arcigay, attivista ed ex parlamentare.


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La sua storia e, più ancora, la storia del movimento lgbt vista attraverso la sua esperienza, è ora raccontata in “Let’s Kiss”, film-documentario di Filippo Vendemmiati, che sarà presentato per la prima volta in Germania venerdì 12 novembre alle 20.00, presso il Kino in der Kulturbrauerei, come parte del programma dell’Italian Film Festival di Berlino.

Alla proiezione saranno presenti tanto il regista quanto il protagonista del documentario, che noi abbiamo intervistato per parlare di come quasi quarant’anni di lotte e movimenti abbiano cambiato l’Italia.

Come è nato il progetto di questo film?

Vendemmiati: Franco e io ci conosciamo da qualche decennio, fra noi c’è un’amicizia e un’appartenenza culturale e politica comune, consolidata negli anni. Entrambi siamo appassionati di cinema: Franco negli ultimi decenni non ha perso quasi nessuna edizione della mostra del cinema di Venezia, compresa l’ultima.

Quando, a Natale del 2018 ha ricevuto dal comune di Bologna il Nettuno d’oro – che è il massimo riconoscimento per i cittadini bolognesi impegnati nel campo della cultura e dell’economia – per la sua battaglia per i diritti civili delle persone lgtbq, ho colto l’occasione per chiedergli di raccontare la sua esperienza sociale, politica personale di questi 30-40 anni, che è estremamente significativa, oltre che sul piano personale, anche come testimonianza di quello che è successo in Italia in questi anni. Era una storia personale, privata, ma anche sociale e politica molto forte e interessante.

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Franco Grillini al Grosseto Pride, 19 Giu 2004. Foto di Giovanni Dall’Orto, Attribution, via Wikimedia Commons.

Grillini: Quando Filippo che ha avuto questa idea, ho trovato che fosse una buona occasione per raccontare, oltre alla mia storia personale, 40 anni di movimento lgbt in Italia. Amo lo strumento cinematografico da sempre e ho sempre frequentato i festival, cercando di favorire quelli lgbt, che hanno avuto un ruolo molto rilevante da questo punto di vista.

Quando si arriva alla mia età – adesso ho 66 anni – si cerca di fare, più che un bilancio, una considerazione sul passato, per fare in modo che non vada disperso. Chi ragiona sul significato della Storia sa che senza conoscere il passato non esiste il futuro e nemmeno il presente.

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Raccontare, come in questo caso, anche una storia personale può essere un modo per fornire anche uno strumento di identificazione. chi ha visto questo film, soprattutto se non più giovanissimo, si è riconosciuto in molte delle cose che abbiamo raccontato, qualcuno si è addirittura commosso. Abbiamo cercato di creare un racconto non solo cronologico, mescolando un po’ di ironia alla narrazione di fatti che sono tutt’altro che allegri, come nel caso della crisi dell’AIDS degli anni ’80.

Allora non c’erano cure: una diagnosi significava morire di lì a poco. È stato un periodo veramente drammatico, che io ho vissuto da leader del movimento lgbt, gestendo questa cosa senza fondi, in totale assenza dello Stato italiano. Mi piace ricordare, per esempio, che il materiale di propaganda sull’AIDS ce lo forniva in licenza la Deutsche Aidshilfe che è un’organizzazione che esiste tutt’ora e che opera con un sostegno dello Stato che per noi, in Italia, era persino difficile da immaginare.

Franco Grillini

Nel film si parla molto delle rivendicazioni degli inizi del movimento lgbt in Italia – che all’inizio era quasi esclusivamente un movimento gay maschile – e si vedono passaggi televisivi che oggi sarebbero impensabili. Tu dici anche che ti infastidisce sentire i più giovani dire che non è cambiato niente da allora. Ti capita, oggi, di confrontarti con i giovani militanti e di comparare le rivendicazioni di allora con quelle di oggi?

Il confronto coi giovani militanti è costante. Quest’estate per esempio sono intervenuto al pride di Milano, all’Arco della Pace, dove c’erano 30.000 persone, in maggioranza giovanissime. Il fatto che esista una militanza in giovane età è rilevante: si è abbassata moltissimo età del coming out. Quando lo feci io, i più giovani avevano 30 anni ed era molto più difficile. Adesso ci sono dodicenni che lo dicono ai genitori.

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C’è stato anche un recente fatto di cronaca proprio a Ferrara, la città di Filippo, che ha coinvolto alcuni ragazzi che lavorano con il gruppo giovani dell’Arcigay. Persone di 12-13-14 anni sono state aggredite da coetanei.

Questo è un fenomeno tipicamente italiano: gruppi di giovanissimi, in branco che si divertono a dare fastidio alle persone omosessuali, soprattutto se sono in atteggiamento affettuoso. Da questo punto di vista il titolo del film, “Let’s kiss”, è particolarmente adeguato, perché tutti gli ultimi atti di omofobia li abbiamo avuti proprio contro persone in atteggiamenti affettuosi.

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L’affettività dà fastidio, quando diventa un fatto pubblico. Il confronto con i giovani, da questo punto di vista, è molto rilevante perché ci si rende conto anche del cambiamento del linguaggio. Oggi c’è un linguaggio che tende a definire tutte le identità, anche le micro identità, mentre un tempo si usava solo la parola “gay”. Anche la parola lesbica, negli anni ’80, si usava molto di rado, perché ritenuta ancora fortemente offensiva. Poi c’è stato un processo di riutilizzo di un termine per definire l’omosessualità femminile.

Anche il cambiamento del linguaggio, quindi, denota questo rapporto fra vecchio e nuovo, passato e presente, giovani e meno giovani. Ed è proprio questa dialettica fra quello che c’è stato prima, quello che sta succedendo adesso e quello che ci sarà poi che ci consente di identificare una società che forse sarà migliore.

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Come immagini il futuro?

In Italia abbiamo delle difficoltà particolari, una situazione molto diversa da quella della Germania, soprattutto sul piano legislativo. I passi avanti sono stati fatti sul terreno culturale, sociale e anche politico, ma manca una definizione di uguaglianza sul piano legislativo.

Recentemente è stato bocciato un provvedimento di legge contro l’omo-transfobia, una cosa del genere per esempio in Germania sarebbe assolutamente impensabile. Abbiamo un Paese in cui fra le forze politiche dominano i sovranisti e purtroppo l’iter verso una piena uguaglianza delle persone lgbt si scontra con un ostacolo parlamentare al momento difficilmente superabile.
Il futuro avrà bisogno un profondo cambiamento del quadro politico, indotto anche dal movimento lgbt, che riesca finalmente a mettere al passo l’Italia non dico con tutti i Paesi più avanzati, ma almeno con un decente quadro normativo che garantisca più diritti e libertà alle persone lgbt.

Nel film si parla del pride come orgoglio e visibilità e tu parli del fatto che non sia giusto dire a chi vi partecipa come farlo, perché è il momento in cui si manifesta l’identità individuale. Eppure, per anni Arcigay è stata vista come il volto “istituzionale”, come “il pride in giacca e cravatta”, mentre i movimenti erano la fazione più colorita. Secondo te, ci sono differenze fra i risultati politici che queste due forme di lotta hanno ottenuto negli anni?

In realtà c’è sempre stata e c’è ancora una dialettica tra un’ala più radicale del movimento lgbt e una più favorevole al dialogo con le istituzioni. Negli anni ’70, il movimento era interamente anti-istituzionale e da questo punto di vista l’inaugurazione a Bologna, nel giugno dell’82, del Cassero di Porta Saragozza – che viene ampiamente citato nel film – è stato un punto di svolta, perché è stata frutto di un dialogo con le istituzioni.

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Bandiere dell’Arcigay a Grosseto nel 2004. G. Dallorto, Attribution, via Wikimedia Commons

Al comune di Bologna allora c’era il sindaco Renato Zangheri e c’era anche un partito comunista particolarmente moderno. Anche allora la sinistra aveva ancora una sua area omofoba, proprio come adesso. Il DDL Zan non sarebbe stato bocciato se non ci fosse stata, nel voto a scrutinio segreto, una parte di sinistra che ha votato con la destra. Credo comunque che non ci sia un vero dissenso fra un’ala radicale e una istituzionale del movimento in materia di battaglie per l’uguaglianza legislativa.

C’è un ampio accordo in merito, un’unità del movimento lgbt che si è vista in questi giorni in decine e decine di manifestazioni di protesta per quello che è successo in Senato. È stata una buona rappresentazione di un movimento unito politicamente.
Poi, certo, ci sono varie discussioni di carattere culturale e filosofico su concetti come la fluidità di genere e il superamento della distinzione tra omosessuali ed eterosessuali o fra maschio e femmina. Questo è un dibattito di lungo periodo che però questo non inficia la sostanziale condivisione di una piattaforma unitaria che in Italia è presente, perché il movimento è sotto attacco dalla destra italiana – che è una destra purtroppo numerosa elettoralmente, agguerrita e in buona parte nostalgica del fascismo.

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Esiste un pericolo concreto, nel nostro Paese, di un revanscismo di estrema destra, che ha preso di mira anche le persone omosessuali. L’omofobia politica in Italia è una vicenda degli ultimi vent’anni, prima evidentemente non venivamo presi in considerazione, perché non ritenuti importanti.

Adesso la questione omosessuale è al centro della politica: negli ultimi la discussione sulla legge sull’omo-transfobia è stata uno dei cinque argomenti della politica italiana. Per la destra era un’occasione per affermare un’ideologia discriminatoria, omofoba e razzista. Un’occasione che molti hanno colto, sia a livello locale che in parlamento, riproponendo un linguaggio e dei ragionamenti che francamente non vorremmo sentire mai più.


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Nel panorama della destra italiana certe derive non sono una novità o una sorpresa. Ma che cosa impedisce, secondo te, alla sinistra di prendere una posizione netta contro le discriminazioni e farvi corrispondere un voto compatto?

In Italia c’è stata una scomposizione dei partiti, con la fine delle vecchie organizzazioni politiche, soprattutto a partire dal 92 con la vicenda mani pulite. Questa scomposizione ha rimescolato le carte portando molte persone che sono sempre state contrarie ai diritti degli omosessuali a militare in formazioni che dovrebbero essere progressiste e far riferimento al centro sinistra. Diciamo che a livello palese, sul piano teorico, sono tutti d’accordo.

Quando c’è un’occasione come quest’ultima, a scrutinio segreto, molti esponenti del PD e dei 5stelle rispondono più al vaticano che non alla linea del partito. Io credo che il presidente della conferenza dei vescovi conosca benissimo nome e cognome delle persone che hanno affossato il DDL Zan nell’ambito del centro sinistra, perché poi queste persone passano all’incasso.

In Italia c’è un problema gigantesco, che è la presenza del Vaticano, di uno Stato dentro un altro Stato, che pretende di dettare legge allo Stato sovrano in cui si trova. Questo è un unicum in Europa, in occidente. Una sovrapposizione fra religione e Stato la vediamo solo nelle teocrazie islamiche.

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In Italia, invece, i vescovi pretendono di avere influenza sulle leggi: qualche volta ci riescono, qualche volta no.

Non ci riescono, per esempio, quando ci sono i referendum popolari, come quelli che hanno deciso, negli anni 70, di dare via libera a leggi come quella sul divorzio e quella sull’aborto – però come tutti sappiamo è in atto un tentativo di rimettere in discussione i diritti acquisiti, come è successo in Ungheria e in Polonia e come qualcuno vorrebbe che succedesse anche in Italia.

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Marcia anti-gay di alcuni nazionalisti a Cracovia, nel 2018. Silar, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

Sei stato uno dei primi in Italia a usare il termine “omo-affettività” e a parlare di relazioni e affettività come fulcro dell’identità, che fa più paura socialmente rispetto al sesso omosessuale. L’abbiamo poi fatta la “rivoluzione sentimentale” a cui fa riferimento nel film?

Io penso che in buona parte ci siamo riusciti, perché abbiamo insistito fin dall’inizio. Io l’ho detto fin dalla prima riunione con Filippo, anche quando stavo fisicamente molto peggio di adesso e registravo la voce che si sente nel film a occhi chiusi, perché non mi riusciva di tenerli aperti.

Ho sempre ribadito quello che sostengo da anni, cioè che si debba riconoscere i lati positivi di una politica incentrata sulla liberazione della sessualità, sulla quale si sono fatti dei passi avanti, ma anche cercare di progredire nel discorso sull’affettività e le relazioni.

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Il termine omo-affettività l’ho sempre usato perché era proprio quello che ci veniva e ci viene ancora negato, quello che dà fastidio. L’affettività lgbt in pubblico non viene tollerata. Non a caso, uno dei leader della destra italiana ha sostenuto che “ognuno debba poter fare quello che vuole fra le mura domestiche”, ma che il diritto e il riconoscimento delle forme familiari sono un’altra cosa.

Questo leader aveva anche tentato di vietare ai suoi sindaci di celebrare unioni civili. Fortunatamente, i suoi sindaci gli hanno disobbedito e in Italia non c’è nessun comune che non applichi la legge sulle unioni civili, legge che abbiamo ottenuto solo nel maggio del 2016. Quindi diciamo che la questione è ancora sul tappeto ed è più importante che mai, soprattutto perché rimane in piedi il tema del matrimonio egualitario, cioè dell’assoluta eguaglianza fra omosessuali ed eterosessuali in materia di diritto di famiglia.

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