Daryl Davis, nero, deradicalizza membri del Ku Klux Klan e neonazisti – La nostra intervista

Ku Klux Klan

Da oltre 30 anni Daryl Davis, musicista nato a Chicago, Illinois, fa qualcosa che nessuna persona nera aveva mai fatto: intrattiene rapporti con i membri del Ku Klux Klan e li porta, attraverso il dialogo, a riconsiderare le loro posizioni. Di fatto, li deradicalizza.
Da quando ha cominciato, circa 200 persone hanno abbandonato la famigerata organizzazione per via del suo operato e tra le 50 e le 60 sono state direttamente convinte da lui. Molti gli hanno lasciato tuniche e cappucci, altri lo chiamano “brother”, fratello, tra i deradicalizzati ci sono anche dei leader come Roger Kelly, “imperial wizard” del Maryland.

Daryl Davis non si è fermato al KKK, ha fatto lo stesso anche con gli esponenti del movimento neonazista americano. Dietro questa continua voglia di andarsi a cercare quelli che sulla carta sono i suoi peggiori nemici, c’è il desiderio di ricevere una risposta. La risposta a una domanda formulata da bambino, dopo aver sperimentato, per la prima volta, la violenza del razzismo.

Daryl Davis sarà presto a Berlino, dove parteciperà alla conferenza “Whistleblowing for Change” del Disruption Network Lab. Davis interverrà sabato 27 novembre, dalle ore 19.00 alle ore 21.00. Nel frattempo, si è raccontato per Il Mitte, in una lunga intervista concessa a Lucia Conti.

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Sei diventato famoso per aver fatto amicizia con membri del Ku Klux Klan e aver spinto molti di loro ad abbandonare l’organizzazione. Perché questa scelta?

Devo prenderla un po’ alla larga e andare indietro, fino alla mia infanzia. I miei genitori erano funzionari del servizio estero presso il Dipartimento di Stato degli Stati uniti, ero un “bambino d’ambasciata” e ho iniziato a viaggiare a 3 anni, nel 1961. La mia prima esperienza scolastica è stata all’estero e i miei compagni venivano da tutto il mondo ed erano figli di altri diplomatici. Se tu avessi aperto la porta e fatto capolino nella mia classe, a quel tempo, ti sarebbe sembrato di vedere le Nazioni Unite dei bambini… era quello che eravamo!

La mia famiglia faceva avanti e indietro, due anni all’estero, di nuovo negli Stati Uniti per qualche mese e poi di nuovo fuori per altri due anni. Era questa la nostra routine.

I Marshals degli Stati Uniti scortano una bambina nera, Ruby Bridges, in quella che durante la segregazione era una scuola per soli bianchi. È il 1960. Uncredited DOJ photographer, Public domain, via Wikimedia Commons

Che situazione vivevi, quando tornavi negli Stati Uniti?

Negli Stati Uniti andavo a scuola in classi di soli neri o in classi miste, che però ancora riflettevano la segregazione razziale. Era stata abolita dalla Corte Suprema nel 1954, ma continuava a essere radicata nella società e me ne accorsi nel 1968. All’epoca avevo dieci anni e c’erano solo due bambini neri nella mia scuola. C’ero io, in quarta elementare, e poi c’era una bambina in seconda. Tutti i miei amici erano bianchi ed erano in un gruppo di scout. Mi invitarono a unirmi e io accettai, ero l’unico scout nero della zona.

Una volta partecipammo a una parata. Ricordo strade e marciapiedi pieni di persone bianche che sorridevano e si divertivano. A un certo punto fui colpito con bottiglie, pietre e lattine di Soda Pop. Mi girai e individuai un paio di ragazzini un po’ più grandi di me, accompagnati da adulti. Il mio primo pensiero fu: “A queste persone non piacciono proprio, gli scout!”. Ero veramente naïve. Non avevo notato che ero l’unico scout a essere bersagliato.

Quando te ne sei accorto?

Quando ho visto i miei capi scout proteggere solo me. Mi coprirono con il loro corpo e mi scortarono via e mi resi conto che nessun altro riceveva lo stesso trattamento. A quel punto chiesi spiegazioni, ma i miei capi continuavano a dirmi: “È tutto ok, andrà tutto bene!”.

Più tardi, a casa, mentre i miei mi medicavano, raccontai cosa fosse successo e loro capirono tutto. Mi fecero sedere e mi spiegarono cosa fosse il razzismo. A dieci anni non avevo mai neanche sentito quella parola, non circolava nel mio ambiente. Ero cresciuto in un contesto multiculturale e che mi si potesse attaccare per il colore della pelle non aveva alcun senso per me. Per questo non ho creduto ai miei genitori.

Quindi la parata scout è stata il primo momento in cui hai realizzato che esisteva il razzismo, ma hai faticato a crederci. Quando hai capito meglio?

Due mesi dopo. Il 4 aprile del 1968 Martin Luther King fu ucciso e le principali città degli Stati Uniti furono messe a ferro e fuoco. Ovunque era distruzione, violenza e follia e tutto si collegava a quella parola che avevo imparato due mesi prima: razzismo. Allora compresi che questo fenomeno esisteva, ma non sapevo perché. E formulai la domanda che mi avrebbe accompagnato a lungo: “Come fai a odiarmi, se non mi conosci nemmeno?”.

Dove cercavi una risposta?

Cominciai a leggere libri sul suprematismo razziale, sul nazismo, sul neonazismo, sul KKK, sull’antisemitismo. E tutti i questi libri parlavano del fenomeno, ma non mi spiegavano perché esistesse. Allora cominciai a chiedere alle persone che mi circondavano. Tutte mi rispondevano: “È così che vanno le cose”, ma non mi bastava, volevo una ragione. C’è sempre una ragione.

Quando hai avuto il primo contatto con persone che esprimevano quell’odio?

Alle superiori. C’era un corso chiamato “Problemi del ventesimo secolo”, era per i ragazzi del secondo anno. Era il 1974 e l’insegnante ci portava in classe persone con visioni “controverse”, su diversi argomenti. Una volta fece venire Matt Koehl, il capo del partito nazista americano (ANP). Non potresti mai farlo oggi! Koehl era subentrato a George Lincoln Rockwell, grande sostenitore di Adolf Hitler, assassinato da un ex membro del partito, dopo una lite.

Insomma, Koehl venne nella mia scuola e io ne sono felice, perché abbiamo bisogno di sapere che queste persone esistono, prima di essere colpiti da quello che non vediamo. Abbiamo bisogno di informazioni e di confrontarci con i problemi. Questo problema, nel 1974, era davanti a noi, in classe. Ricordo che Koehl indicò me e un altro ragazzo nero e disse, mostrandoci l’uscita con un dito: “Vi rimanderemo in Africa! E tutti gli ebrei li manderemo nello stato di Israele”. Uno dei miei compagni chiese: “Cosa succede se non vogliono?”. Lui rispose: “Non hanno scelta. Se non se ne andranno spontaneamente, saranno sterminati nella guerra della razza, che sta per arrivare”. Un altro termine che non avevo mai sentito: guerra della razza. Avevo 15 anni.

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Membri del KKK supportano la campagna di Goldwater e nascono degli scontri con alcuni attivisti neri, nel 1964. Leffler, Warren K., photographer, Public domain, via Wikimedia Commons

Hai più rivisto Koehl?

Lo rividi otto anni dopo, durante una manifestazione a Washington DC, nel 1982. Si ricordava di me, del nostro incontro a scuola. Parlammo a lungo, era ossessionato dalla teoria del “2042”, inteso come anno in cui si ritiene che i neri raggiungeranno la percentuale del 50% negli Stati Uniti. Quando ero piccolo, la popolazione nera era del 12%, i nativi erano l’1%, gli ispanici il 2%, gli asiatici quasi il 3% e i bianchi tra l’86 e l’88%. Oggi i bianchi, negli Stati Uniti, sono il 59%.

La percentuale di non bianchi sta crescendo e una larga percentuale di popolazione bianca non ha problemi con questo fenomeno, lo ritiene naturale. Molti altri, però, sono terrorizzati e pensano che la loro identità sarà cancellata. Questa è la ragione per cui hanno assaltato Capitol Hill con la bandiera confederata, il 6 gennaio del 2021: per “riprendersi” il Paese. Del resto, quando sei stato seduto sul trono del potere per 400 anni non ci vuoi rinunciare. Pensa a Donald Trump. È stato su quel trono per 4 anni e pensa di essere ancora presidente.

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L’assalto di Capitol Hill, gennaio 2021. TapTheForwardAssist, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

Quando hai incontrato per la prima volta un membro del Ku Klux Klan?

Nel 1983. Sono un musicista e stavo suonando musica country in un bar per per bianchi a Frederick, Maryland. Dopo la gig venne da me un tipo, che mi disse: “Questa è la prima volta che sento un nero suonare il piano come Jerry Lee Lewis”. Io gli risposi: “Dove pensi che Jerry Lee Lewis abbia imparato a suonare? Ha costruito il suo stile ascoltando black music. Blues, boogie-woogie… è da lì che vengono il rock ’n’ roll e il rockabilly”. Non mi credeva e gli dissi: “Guarda che lo dice lui stesso! Tra l’altro, Jerry Lee Lewis è un mio amico”. Continuò a non credermi, ma volle offrirmi un drink, in qualche modo era affascinato da me. Io non bevo alcol, quindi presi un succo di mirtillo e toccammo i bicchieri.

Dopo un po’ mi disse che era la prima volta che prendeva un drink con un nero. La cosa mi sembrava assurda, io ero più giovane di lui, eppure nella mia vita avevo frequentato moltissimi bianchi. Fui di nuovo naïve, come quando ero piccolo. Gli chiesi perché, lui tentennò, ma alla fine me lo disse: “Sono un membro del KKK”. Mi misi a ridere, pensavo scherzasse. Ma lui tirò fuori il suo biglietto da visita, con tutti i simboli dell’organizzazione.

Daryl Davis. Photo by Jonathan Timmes

Com’è finita la serata?

Mi diede il suo numero di telefono, voleva tornare a sentirmi suonare, quando fossi tornato in città. Ed effettivamente tornò con degli amici, che ballavano e si godevano lo show delnero che suonava come Jerry Lee Lewis”. Durante le pause mi avvicinavo, alcuni dei suoi amici mi parlavano, altri si allontanavano. Poi cambiai band e genere musicale, smisi di suonare country e cominciai a suonare rock ’n roll, quindi lo persi di vista.

Mi ricordai di lui quando decisi di scrivere un libro sul KKK. Prima di me altri due neri avevano scritto dell’argomento, ma dalla prospettiva di chi era scampato al linciaggio. Io volevo sedere con questa gente, parlare e capire. E ricevere una risposta a quella famosa domanda che avevo formulato a dieci anni: “Come puoi odiarmi se non mi conosci neanche?”.

Allora recuperai il numero di telefono del membro dell’organizzazione che avevo conosciuto e gli chiesi di incontrare il suo leader, il capo del KKK del Maryland, Roger Kelly. All’inizio il tipo era spaventatissimo, aveva paura che saremmo finiti entrambi nei guai. Poi mi diede il numero, ma mi disse: “Non dirgli per nessuno motivo che l’hai avuto da me. Promettilo!”. Promisi.

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Siamo arrivati dunque al famigerato Roger Kelly, di cui da più parti si diceva “Non scherzare con Roger Kelly o ti ucciderà”

Lo feci chiamare dalla mia segretaria, che gli disse che il suo capo voleva incontrarlo perché stava scrivendo un libro sul Ku Klux Klan. Avrei potuto chiamarlo io, ma non volevo che dalla mia voce e dal mio modo di parlare si accorgesse che ero nero e riagganciasse.

Mary, la mia segretaria, era bianca e lui l’avrebbe percepito. E non avrebbe pensato che lavorasse per un nero, conoscevo la sua mentalità. Andò tutto liscio.

Come andò l’incontro?

Arrivai per primo, con Mary, in questo hotel in cui dovevamo vederci. Preparai un secchio con dei ghiaccio e delle lattine di Soda Pop. Volevo essere ospitale.

A un certo punto bussarono alla porta. Per come era fatta la stanza, entrando non vedevi immediatamente chi c’era all’interno, dovevi girare l’angolo. Io ero seduto a un tavolo, ai miei piedi c’era una borsa nera con dentro un registratore a cassette e una Bibbia. Il Ku Klux Klan si definisce un’organizzazione cristiana e sostiene che la Bibbia sancisca la segregazione razziale, ma non è vero. Ed ero pronto a dimostrarlo, testo alla mano.

Mary aprì la porta, il bodyguard, che aveva una pistola sul fianco, entrò per primo, girò l’angolo, mi vide e si fermò, paralizzato. Kelly era subito dietro di lui, indossava un completo blu, era in giacca e cravatta. Gli finì contro, caracollarono e per poco non caddero. Io ero seduto e li guardavo e vedevo nei loro occhi la domanda: “È la stanza sbagliata oppure è una trappola?”. Allora venni avanti e tesi la mano dicendo: “Salve Mr. Kelly, sono Daryl Davis”. Kelly mi strinse la mano. Anche la sua guardia del corpo lo fece.

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Daryl Davis con Frank Ancona, “imperial wizard” del Ku Klux Klan a Leadwood, Missouri. Ancona è stato ucciso dalla moglie, che gli ha sparato alla testa nel 2017.

L’ingresso di Kelly è già notevole. Parlami del resto

Cominciammo l’intervista. La guardia del corpo rimase in piedi, sul lato destro di Kelly. Ogni volta che Kelly diceva cose sulla Bibbia, mi abbassavo per prenderla e contraddirlo e tutte le volte la guardia del corpo portava la mano verso l’arma. Dopo un po’ si rilassò, si rese conto che la nostra era una conversazione tranquilla. Fino a quando non si verificò un bizzarro imprevisto.

All’improvviso, sentimmo uno strano rumore che ci fece sussultare. Non veniva da me, quindi pensai che venisse da Kelly e mi sentii minacciato. Balzai in piedi, colpii il tavolo con le gambe, ero pronto a saltargli addosso. Devi capirmi, ero un nero, in una stanza con un leader del Ku Klux Klan, di cui mi avevano detto “Non scherzare con lui, o ti ucciderà”. La guardia del corpo aveva la mano sulla pistola. E poi Mary, la mia segretaria, ci spiegò cosa stava succedendo. Era colpa del secchio del ghiaccio con le lattine di Soda Pop. Il ghiaccio aveva cominciato a sciogliersi e le lattine, precipitando, producevano quello strano rumore. Quel giorno qualcuno rischiò di morire per colpa del ghiaccio. È folle.

Daryl Davis con tuniche del Ku Klux Klan e bandiere neonaziste.

Alla fine gli animi si sono calmati?

Sì e quando il rumore si è verificato di nuovo, ne abbiamo riso insieme. Ma ho imparato anche una lezione importante, quel giorno, e cioè che la paura porta alla violenza. Io ero pronto ad attaccare e la guardia del corpo mi avrebbe sparato.

Per questo dico che bisogna occuparsi della paura, perché se è trascurata diventa odio, noi tutti odiamo le cose che ci spaventano. E l’odio a sua volta genera rabbia, che poi degenera in distruzione. Perché quando odi qualcosa e ti arrabbi, beh… quella cosa la vuoi distruggere. Faccio sempre un esperimento, a riguardo, quando parlo ai bambini delle elementari o ai ragazzi delle medie.

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Che genere di esperimento?

A un certo punto grido: “Ehi! C’è un serpente là sotto!”. E tutti sollevano le gambe e urlano. Quando si rendono conto che non c’è alcun serpente, ridono. E quando chiedo il perché della loro paura, mi rispondono che odiano i serpenti “perché sono viscidi e velenosi” e io spiego che i serpenti sono asciutti al tatto, non viscidi, e non sono tutti velenosi. Ignoranza, paura, odio. Poi chiedo: “Se il serpente ci fosse davvero, cosa dovrei fare?”. Secondo te cosa mi rispondono?

“Ucciderlo”

Esatto. Siamo arrivati alla distruzione. Per questo dobbiamo occuparci dell’ignoranza, che è alla base di tutto, per impedire l’escalation. Negli Stati Uniti spendiamo tantissimo tempo a occuparci della violenza, che però è il sottoprodotto dell’ignoranza, di cui invece non ci occupiamo affatto. Se curiamo l’ignoranza non ci sarà niente da temere, niente da odiare e quindi niente da distruggere. Il nome di questa cura si chiama educazione.

Daryl Davis a un raduno del Ku Klux Klan nel Missouri

Quando hai cominciato a frequentare I klansmen, hai partecipato anche ai loro raduni, rituali e croci in fiamme inclusi. Ti sei mai spaventato?

Spaventato no, ma ero rattristato dal fatto che tutte queste persone che bruciavano croci proclamando il “white power” fossero così ignoranti e dissociate dalla realtà. Pensavo “Che posso fare per far vedere loro che c’è un modo migliore di vivere?”. Sono chiusi in una bolla, temono tutto ciò che non somiglia a loro, sono ossessionati dal fatto che qualcuno possa escluderli dal potere e cancellarli, indossano i loro costumi e si sentono incredibilmente potenti.

https://www.youtube.com/watch?v=pESEJNy_gYQ&t=2s

I costumi, per i membri del KKK, sono una componente essenziale dell’identità

Roger Kelly ce l’aveva in una valigetta, quando ci siamo incontrati. Non me l’aveva detto ma lo sapevo. Dopo l’intervista gli chiesi di indossarlo e di fare delle foto. Con il costume addosso aveva un atteggiamento completamente diverso, per lui era come vivere una trasformazione, tipo Superman.

Quando l’ho visto vestito così sono stato sopraffatto dalla rabbia e ho rischiato di diventare violento. Ho pensato per un attimo di saltargli addosso, per tutte le atrocità commesse da persone con quel costume ai danni di gente come me. Poi mi sono calmato e mi sono detto “Daryl, gli hai chiesto tu di venire e di indossare il costume”. E in fondo il problema era l’odio che quell’uomo esprimeva, non il vestito che indossava.

Tu hai posato spesso con tuniche e cappucci che i klansmen deradicalizzati ti hanno donato

Quando il primo klansman ha abbandonato l’organizzazione dopo aver parlato con me e mi ha lasciato il suo costume, ti sembrerà strano, ma l’ho indossato. Volevo capire che si prova, se è vero che ci si sente più potenti.

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Daryl Davis posa con tunica e cappuccio del Ku Klux Klan.

E come ti sei sentito?

Stupido. E L’ho tolto. A proposito delle croci che bruciano, ho un’altra storia per te. Una volta sono uscito con un leader locale, un gradino al di sotto sotto quello che loro chiamano il “Gran Dragon”. Gli ho chiesto: “Se siete un’organizzazione cristiana, come mai bruciate le croci?”. Lui mi ha risposto: “Usiamo il fuoco per due ragioni. La prima è che il fuoco è simbolo di purificazione e della purezza della razza bianca. E la seconda è che illuminiamo la strada per la seconda venuta di Cristo”.

A quel punto gli ho detto “Anche io sono cristiano, ma il mio Gesù non somiglia per niente al tuo, quindi devono essercene due”. “Nel senso che il tuo è nero?” mi ha risposto il tipo. “No, non è nero e in realtà neanche bianco. Visti i luoghi in cui è cresciuto deve essere stato olivastro. Ad ogni modo quello che intendo è che tu illumini la strada per il tuo Gesù, mentre il mio la illumina a me. Il Gesù che conosco io non ha bisogno di un uomo che gli faccia luce”. Lui è diventato taciturno, ha cambiato argomento e so che dopo 4 o 5 mesi ha lasciato il Ku Klux Klan proprio a causa di quella conversazione.

Ironia e maieutica, qualcuno potrebbe parlare di un metodo quasi socratico

Forse un po’ sì. Credo sia meglio lasciare che le persone giungano da sole alle loro conclusioni, ponendo loro domande o facendo esempi.

Quando dialoghiamo, dobbiamo capire che la percezione di una persona è la sua realtà. Anche se non è oggettivamente reale. Più attacchi la realtà di qualcuno, più questa persona si difenderà, attaccandoti a sua volta. Ho scoperto che se vuoi che la realtà di qualcuno cambi, non devi attaccarla, devi offrire una percezione migliore.

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Molte persone sono passate “dall’altra parte” grazie a te. Che mi dici del lato oscuro della storia? Qualcuno ti ha offeso, minacciato o attaccato?

Assolutamente sì. A volte mi è toccato diventare violento e mandarne qualcuno in ospedale o in galera, è successo quando mi hanno messo le mani addosso. Devi capire che queste sono persone che ti detestano, che non ti considerano uguale a loro, che vorrebbero schiacciarti come uno scarafaggio in mezzo alla strada.

Non parliamo del “razzista della porta accanto”, che magari non ti fa uscire con sua figlia se sei nero. Parliamo di gente che si unisce a un’organizzazione come il Ku Klux Klan facendo un patto di sangue. Quella diventa la loro famiglia, la loro realtà. L’unica cosa che vedono. Alcuni di loro possono cambiare, ma non tutti. C’è gente che vive e muore piena d’odio e razzismo, ma anche in qui casi vale sempre la pena provare ad avere una conversazione. Quindi sì, per tornare alla tua domanda ci sono stati momenti molto bui.

Si può davvero parlare di amicizia, descrivendo i tuoi rapporti con queste persone? C’è qualcuno di loro che ritieni un vero amico?

Sì, assolutamente.

Davvero?

Sì. Conosci il  Movimento Nazionalsocialista statunitense? È la più grande organizzazione neonazista del mio Paese. Il suo ex leader, Jeff Schoep, ha chiuso con quel mondo dopo aver parlato con me e con una regista musulmana (Deeyah Kahn, ndr). Oggi lavora molto duramente per deradicalizzare gli estremisti e prevenire la radicalizzazione dei giovani. Ha collaborato anche con il centro Simon Wiesenthal. Ed è un amico.

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Jeff Schoep. Photo credits: EPA/ERIK S. LESSER

Dopo che Roger Kelly ha lasciato il KKK, il clan nel Maryland si è sciolto per qualche anno. Si è riformato recentemente, con Richard Preston. E tu sei già entrato in azione

Ho cenato con lui, sabato.

È uscito, quindi? Nel 2017 era in carcere, se ricordo bene

Sì, è corretto. È uscito da circa un mese.

Ha già avuto modo di riconsiderare le sue posizioni?

È in cammino.


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Di solito dici che niente ti può ferire perché sai chi sei. Chi sei, Daryl?

Qualcuno che è sempre ansioso di conoscere nuove cose e aprirsi a nuove prospettive. C’è una frase che amo molto, di Mark Twain, ed è questa: “Il viaggio è fatale per il pregiudizio, il bigottismo e la ristrettezza di vedute, e molte persone ne hanno un gran bisogno proprio per questo. Una visione ampia, sana e caritatevole degli uomini e delle cose non si acquisisce vegetando in un piccolo angolo della terra per tutta la vita”. È così vero.

Quanto ai membri del KKK o ai neonazisti, sono esseri umani come noi, ma con delle idee orribili. Non sono nati con quelle idee, le hanno imparate. E quello che hai imparato lo puoi disimparare. Dobbiamo capire, da esseri umani, il loro bisogno di appartenere a qualcosa. Dobbiamo solo assicurarci che appartengano alla cosa giusta. Io mi occupo di questo.

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