Cina, tecnologia e sorveglianza: quello che gli occidentali non capiscono – intervista a Simone Pieranni
Simone Pieranni è un giornalista de Il Manifesto, fondatore di China Files, agenzia di stampa con base a Pechino, che si specializza nella fornitura di notizie sulla Cina per i media italiani. Avendo vissuto in Cina dal 2006 al 2014, è uno degli esperti italiani più accreditati sulle questioni politiche e sociali del Paese. In occasione dell’evento Powers of Truth, organizzato da Disruption Network Lab, Pieranni esplorerà alcune delle ricerche che lo hanno portato alla stesura del libro “Red Mirror” (2002), nel quale approfondisce temi legati allo sviluppo tecnologico in Cina, in particolare concentrandosi su tecnologie come il riconoscimento facciale e l’intelligenza artificiale e su come le visioni che arrivano dall’estremo Oriente possano apparire per noi tanto uno specchio quanto la cronaca di una distopia. La questione, in realtà, è ancora più complessa. Lo abbiamo intervistato per cercare di ampliare la prospettiva occidentale sulle tante sfaccettature del rapporto che la superpotenza asiatica ha con la tecnologia.
La Cina sta diventando il prototipo mondiale del “surveillance state”, ovvero dello Stato che sorveglia la popolazione in modo praticamente costante. Come si è arrivati a questo uso della tecnologia e quali aspetti di questo fenomeno risultano più difficili da comprendere per gli occidentali?
La Cina ha sempre controllato la propria popolazione in modo costante e l’attuale sviluppo tecnologico del paese ha dotato il Partito comunista di nuovi strumenti per allargare e migliorare la sorveglianza. Il processo di sviluppo è partito nel post 1989 con ingenti finanziamenti alla ricerca e allo sviluppo ed è accelerato dopo il 2008 quando la crisi occidentale ha frenato le esportazioni cinesi, rendendo necessario un passaggio dalla quantità alla qualità. La Cina oggi non esporta solo manifattura ma anche tecnologia. Tutto il processo è stato guidato e controllato dal Pcc: è molto complicato comprendere l’attuale sviluppo hi tech del paese senza ricordare le caratteristiche dell’innovazione cinese: forte controllo sul processo del partito, sostegno alle proprie aziende (tramite censura ed esclusione dal mercato interno di competitor globali) e innovazione mirata a migliorare le condizioni della popolazione (ricchezza) e perpetuare la centralità del Pcc. In realtà l’Occidente in alcuni casi sovrastima alcuni aspetti di questo processo, in altri prova ad esorcizzarli, proiettando sulla Cina le paure che abbiamo anche noi riguardo la tecnologia e la sua possibilità di essere usata come strumento di sorveglianza di massa.
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In questo momento, in Cina, ci sono voci critiche rispetto alla pratica della sorveglianza tecnologica costante?
Più che voci critiche, al momento con Xi Jinping è molto difficile trovarne, ci sono state reazioni “da consumatori”, persone che hanno fatto causa per la raccolta e l’utilizzo di dati illegali delle aziende. Per la prima volta nel 2021 un professore cinese ha vinto una causa contro un parco che aveva le videocamere a riconoscimento facciale, contestando la raccolta dati senza alcuna richiesta o avviso. Analogamente molte cause coinvolgono la raccolta dati delle piattaforme. Si tratta di un processo particolare: il Pcc ha colto questi sentimenti, li ha incentivati, perché è in corso una guerra contro le piattaforme. Siamo nel pieno modus operandi del Pcc: per una questione di potere (i dati) il pcc vuole colpire le piattaforme. Facendolo dimostra anche di andare incontro a esigenze espresse dai cittadini, cioè limitare lo strapotere delle piattaforme.
In Cina ci sono state proteste contro le piattaforme per violazioni della privacy: come ha reagito il governo cinese e come è stato percepito questo momento storico dalla popolazione?
Il governo cinese ha reagito in diversi modi: multe, legge antitrust e una legge sulla privacy molto simile a quella europea, sebbene con “caratteristiche cinesi”; la legge è molto dura contro le aziende ma non dice quasi niente di cosa possa fare o meno il governo con i dati. Sui social e sui media c’è molta discussione e le riflessioni si sono allargate anche alle condizioni dei lavoratori del settore hi-tech. È un momento piuttosto interessante.
Si può considerare la Cina un laboratorio mondiale? Ci stiamo avviando verso una società ipercontrollata a tutti i livelli?
La Cina è un laboratorio talvolta complicato da comprendere, perché agisce sotto logiche proprie e talvolta sfuggenti per noi occidentali. Resta il fatto che la Cina dal 1949 a oggi è passata attraverso la nascita di uno stato nazione, gravi disordini interni (la rivoluzione culturale) e poi l’ingresso nel mercato mondiale (nel 2001 entra nel Wto) che ha portato a una progressione economica capace di alleviare dalla povertà milioni di persone. Questa crescita, impressionante, ha causato molti squilibri: ineguaglianze, crisi ambientale, bolle speculative. In questo momento il Pcc sta provando ad aggiustare la situazione. Abbiamo sperimentato la fase più avanzata e selvaggia del capitalismo, sembra dire l’attuale leader del Pcc, ora è il momento di redistribuire la ricchezza. Siamo quindi di fronte a una fase piuttosto cruciale anche perché il “patto sociale” in Cina è ancora quello del post 1989: voi potete arricchirvi, ma dovete rinunciare ad alcuni diritti. Ma questa fase di transizione rischia di creare scompensi anche di natura sociale. Sarà molto interessante osservare cosa accadrà, specie nel campo tecnologico: Pechino ha di recente approvato anche una bozza che mira a controllare e limitare gli algoritmi di raccomandazione, sta provando a frammentare le piattaforme in diverse aziende (alcune delle quali probabilmente potrebbero essere nazionalizzate), tutte cose di cui si discute molte in Occidente, da tempo.
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