Chi era Nico, l’iconica sacerdotessa delle tenebre degli anni ‘60

Nico
GanMed64, CC BY 2.0 , via Wikimedia Commons
di Vittoria Lolli

Era il 1938 quando, a Colonia, nacque Christa Päffgen. Meglio conosciuta come Nico, bizzarro anagramma di Icon, fu l’artista che rivoluzionò la scena musicale degli anni ’60 inventando un genere tutto suo, il gothic rock. E proprio questo suo spirito gotico e decadente le valse il soprannome di sacerdotessa delle tenebre.

Bella e impossibile, recitò in La Dolce Vita di Federico Fellini, fu musa di Andy Warhol e cantò svariate tracce al fianco dei Velvet Underground, prima di avviare la carriera da solista. Cantante, attrice e anche modella, durante la sua vita, Nico affascinò le più disparate personalità. Da Lou Reed a Jim Morrison, da Iggy Pop a Jimi Hendrix: li incantò tutti.

Le origini di un’icona

A soli cinque anni subì il trauma della morte del padre, deceduto in un manicomio probabilmente a causa di danni cerebrali riportati durante la guerra. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, Christa si trasferì insieme alla madre a Berlino. Proprio insieme alla madre e proprio a Berlino, tra l’altro, l’artista riposerà anche dopo la morte, specificamente nel cimitero dei suicidi di Grunewald. Ma torniamo indietro.


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La capitale tedesca diventò per la ragazza la passerella di una sfilata di moda. Grazie allo spirito giovane di una quindicenne già bellissima, raffinata e delicata, Christa lasciò la scuola e intraprese autonomamente la carriera di modella. Nel giro di due anni, con il suo sguardo magnetico e la sua incontrastabile bellezza, diventò la modella più famosa di Berlino.

Ma la capitale tedesca rappresentò soltanto un trampolino di lancio per quella che sarebbe diventata poi una carriera internazionale, che le permise di conoscere famosi personaggi come il fotografo Herbert Tobias, colui che per primo la rinominò Nico, in onore dell’amico regista Nico Papatakis.


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Nico dagli atelier parigini al cinema italiano

Sebbene alla fine degli anni ’50 si trovasse a Parigi a lavorare per Chanel, l’alta moda non sembrava darle quello che il suo spirito irrequieto cercava realmente. Nico, ormai annoiata, decise quindi di trasferirsi nel mondo del cinema italiano, debuttando in La Tempesta di Alberto Lattuada (1958). Questa sua entrata scenica in Italia le permise di attirare l’attenzione di personaggi significativi come Federico Fellini, che le ritagliò uno spazio in La Dolce Vita (1960), accanto al protagonista, Marcello Mastroianni.

I numerosi amori di Nico

Alain Delon, conosciuto sempre in Italia e con il quale intraprese una breve relazione, fu colui che le diede il suo unico figlio. Nato nel 1962, non fu mai riconosciuto dal padre. Nico gli dedicò la canzone “Ari’s Song”, composta quando aveva già iniziato la carriera di cantante solista.

Dopo l’Italia, fu la volta di Londra, dove conobbe ed ebbe un breve flirt con Brian Jones, membro dei Rolling Stones. Tuttavia, l’incontro che senza dubbi le trasformò l’esistenza più di ogni altro, fu quello a Parigi con Bob Dylan, il cantante che le compose il pezzo “I’ll Keep It With Mine”, contenuto nel suo album solista “Chelsea Girl” (1967), e che, soprattutto, la presentò all’icona della Pop Art per eccellenza, Andy Warhol, ribaltando completamente il futuro della cantante.

Con Andy Warhol affascinato dalla magnetica bellezza di Nico, la giovane cantante-attrice-modella ottenne un posto d’onore all’interno della Factory, soffiando il ruolo all’allora musa ispiratrice di Warhol, Edie Sedgwick. Convinto della sua scelta, il re della Pop Art coinvolse Nico in moltissimi dei suoi film sperimentali, tra cui The Closet (1966) e Chelsea Girls (1966).

 

L’avventura con i Velvet Underground

Warhol rappresentò il ponte di collegamento tra Nico e gli allora emergenti Velvet Underground, a quei tempi semplici studenti universitari con qualche live alle spalle. Warhol, loro manager, ebbe l’intuizione di unire la voce profonda di Nico agli esperimenti psichedelici della band. Intuizione che si rivelò essere vincente.

Nello scenario Flower Power degli anni ’60, caratterizzato da squillanti voci femminili, gli oscuri timbri vocali di Nico spiccavano come qualcosa di affascinante, mai sentito prima e, per questo, decisamente interessante. Nel 1967 nacque l’album The Velvet Underground & Nico, che conteneva canzoni come le emblematiche “Femme Fatale”, “Sunday Morning” e “Heroin”, e l’eccezionale copertina disegnata dal maestro della Pop Art in persona: una banana su fondo bianco, accompagnata dalla dicitura “Peel Slowly and See”.

 

Il declino e l’autodistruzione

Come tutti gli artisti più eccentrici, anche Nico si piegò all’uso di stupefacenti, che la condussero all’autodistruzione. Alle anfetamine, di cui già faceva uso ai tempi della Factory, si aggiunse l’eroina, alla quale l’artista iniziò anche il giovanissimo figlio Ari, coinvolgendolo in un loop senza fine. Da tempo ormai, Nico sembrava volersi liberare dell’angelico volto dai lineamenti dolci e raffinati con il quale da sempre veniva identificata, e immedesimarsi in quella che definiva la sua vera natura, fatta di look spettrali e capelli tinti di nero. L’uso di droghe e la sregolatezza della vita mondana diedero addio all’icona che tutti conoscevano e amavano. Folgorante e memorabile, un enigma da decifrare, amava ripetersi: “un vero artista deve autodistruggersi, mi pare che io ci stia riuscendo“.

 

Nonostante tutto, per quanto assurdo possa sembrare, Nico non fu uccisa dalle droghe. La morte la raggiunse nella calda mattina del 18 luglio 1988 a Ibiza, quando, in seguito ad una caduta in bicicletta, ebbe un’emorragia cerebrale che la condusse d’urgenza in ospedale, dove però non riuscirono a salvarla.

Senza dubbi, la sacerdotessa delle tenebre, in tutta la sua decadente ed oscura malinconia di artista dannata, ci ha lasciato un nuovo tipo di musica, intima e tenebrosa, che ancora oggi risuona forte come un’ode “To All Tomorrow’s Parties”.

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