“Spazi vuoti”. E se fossi stata in Italia, invece che a Berlino?
Recentemente siamo stati contattati da una donna, che vive a Berlino. Ha deciso di condividere con noi “Spazi vuoti”, un testo dal contenuto molto doloroso, frutto della sua esperienza personale. Nel tempo si è trovata spesso a interrogarsi su come sarebbe stata, la sua terribile vicenda, se si fosse svolta in Italia, invece che in Germania.
Non sono pochi i casi di cronaca italiana che dimostrano come l’esperienza dell’aborto sia difficile da vivere, sia in assoluto, sia nei casi in cui l’aborto avvenga dopo aver scoperto nel feto gravi malformazioni, com’è successo alla persona da cui proviene il testo che pubblichiamo. Dalla storia di Federica, costretta a spostarsi fino a Marsiglia poco prima del lockdown perché respinta da un ospedale italiano a una serie di testimonianze anonime raccolte dall’Espresso, in cui diverse donne hanno denunciato di aver subito terribili abusi, una cosa è certa: l’Italia non è un Paese per donne che vogliono abortire.
Il racconto a cui diamo voce oggi non è una cronaca, ma un testo che vuole comunicare un’emozione definitiva, che ha cambiato per sempre la vita di una donna. Una donna che scrive questo blog. Una donna che parla di “spazi vuoti”. Una donna continua a chiedersi: “Che mi sarebbe successo, se fossi stata in Italia e non a Berlino”?
Avrebbe 6 anni quel mio bambino del quale non riesco a scrivere il nome. È facile, sono solo tre lettere eppure non le ho dette mai a nessuno, nemmeno a suo padre.
Forse mi è saltato fuori dalla bocca in una notte di alcool, dolore e nessuna remora, quando pensi di parlare da sola ma davanti a te c’è qualcun altro ma detto no, quello mai.
A nessuno. Nemmeno a chi rimanendo in silenzio se lo sarebbe messo in tasca al caldo, piegato come un biglietto su cui è scritto un segreto, come è successo tante altre volte.
C’è tanto di quel dolore in queste mie mani adesso e nella gola che si fa di pietra e che non lascia passare nemmeno un goccio di saliva. Inespugnabile come il male.
Sono bastate poche pagine di un libro, “Lo Spazio Bianco” di Valeria Parrella, in cui una donna racconta la sua vita, la sua morte, lo spazio bianco che si riempie del tempo atteso davanti a un’incubatrice che è ora un ventre, non più carne, ma vetro e luci e numerini che provi a interpretare ma non significano niente e mai quello di cui hai bisogno tu: ce la farà.
Il feto che ora dorme al caldo, tra le pagine che per contegno ho appena chiuso e poggiato in grembo, mentre la metro mi porta in un posto che ora non ha più importanza, ha 6 mesi.
Il mio ne aveva 5.
L’ho partorito soffrendo come comanda quel dio che vigliacco si volta dall’altra parte, davanti a bambini che nascono solo per morire.
Non l’ho toccato mai, nè visto. Non ho potuto, ho preferito tenere nella mente quell’immagine in bianco e nero, gelatinosa di pixel il giorno in cui la dottoressa ha smesso di sorridere.
Mai le dita piccole, mai la testa che non sarebbe stata come quella di tutti gli altri, mai le gambe anche loro buffe e spaventose, come questa vita che ha deciso di rendermi madre a metà.
Mi sei passato attraverso, spinto fuori da farmaci e disperazione, entrambi vivi e coi cuori che battevano.
Sapevo che ad aspettarti non c’era altro che la morte, ma non ha avuto la grazia di coglierti quando eri al caldo qui dentro. L’abbiamo attesa invano per sessanta giorni ma i tuoi battiti pazzi ci dicevano sempre altro.
Che c’eri e poi c’eri ancora, dormivi e non sapevi come andartene e neanche di doverlo fare.
Sei rimasto fino all’ultimo in quella bolla nera per insegnarmi a lasciare andare e ad amare chi e come posso e che si possono perdere pezzi della propria esistenza, farsi lacerare e spargere brandelli di sè lungo la strada, eppure -incredibilmente- continuare a vivere.