Maria Callas e il critico tedesco: la perfezione di una voce imperfetta

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Maria Callas. Photo by IISG

Maria Callas avrebbe compiuto 97 anni proprio oggi, 2 dicembre. Come accade per tanti colossali talenti dalle vite complicate, non sapremo mai come sarebbe invecchiata. Avrebbe affrontato gli anni con la grazia di una Renata Tebaldi o di una Raina Kabaivanska o si sarebbe trasformata in una caricatura di se stessa come altri grandi artisti che preferiamo ricordare al loro apice?

La verità è che l’idolatria universale, che oggi diamo per scontata verso la figura della Callas – la prima diva, l’ultima diva, l’unica diva – è un fenomeno relativamente recente, si potrebbe dire successivo alla sua prematura scomparsa nel 1977. Non che Maria Callas non fosse la cantante d’opera più celebre e pagata del suo tempo, ma l’apprezzamento per le sue doti artistiche era tutt’altro che condiviso e il pubblico dei teatri, così come la critica, non lesinavano giudizi ben poco lusinghieri.

In un articolo dello Spiegel del 1963, per esempio, l’autore – pur mantenendosi nei toni di una certa reverenza per il fenomeno di stile e per la rilevanza artistica di Maria Callas – non manca di rivolgere qualche frecciata alla Divina, ponendo l’accento con appena percettibile sarcasmo sul cachet da 42.000 Marchi e sul fatto che l’artista avesse ormai quasi smesso di cantare opere complete perché “le rovinavano la voce” e preferisse invece dedicarsi alla più “redditizia” forma del recital.

Nel caso la teutonica freddezza dell’articolo lasciasse qualche dubbio, l’autore cita anche il critico musicale Klaus Geitel, il quale aveva notato come la Callas faticasse, già nei primi anni ’60, a raggiungere le vette del suo registro più alto, che un tempo padroneggiava con disinvoltura, nonché il critico del Times che aveva definito il canto della Callas “aspro, sporco, stridente e perfino sbagliato”.

Nonostante i fischi del Met e le opinioni sprezzanti di una parte della critica, tuttavia, Maria Callas è stata anche adorata in modo perfino fanatico durante tutta la sua carriera e ancora oggi è il volto più noto e la voce più riconoscibile nella storia del canto lirico. Perché? In parte proprio per via di quel suo cantare “aspro” e “sporco”. Non è un caso che le tante successive imitatrici della Callas abbiano sempre cercato di incorporare (malamente) i suoi difetti, più che i suoi pregi. Ma se una tecnica si può imitare, un difetto, una sporcatura non si può replicare senza cadere nella macchietta.

La voce di Maria Callas, per chi l’ha amata e la ama svisceratamente, scorreva come un fiume cupo e tumultuoso, che lascia intravedere scorie e impurità sotto il pelo dell’acqua, ma che fa intuire vortici e profondità capaci di risucchiare l’ascoltatore. Chiunque abbia ascoltato anche solo una volta, in una pessima registrazione, la voce della Callas sarà in grado di riconoscerla fra mille, laddove anche gli addetti ai lavori – che pure non lo ammetteranno mai – fanno fatica a riconoscere fra loro le più celebrate cantanti del nostro tempo, con pochissime eccezioni.

La disomogeneità fra il registro grave, quello medio e quello acuto, con le celebri tre ottave che si andavano restringendo negli anni, rappresenta un’altra delle imperfezioni che anche gli ammiratori contemporanei avevano imparato ad amare.

Fra coloro che non hanno potuto godere del privilegio di assistere a una sua esibizione dal vivo è comune l’invidia per coloro che invece hanno avuto questa fortuna, perché la loro esperienza deve essere stata una versione infinitamente più intensa e potente di quello che per tutti noi avviene quando si ascolta una registrazione in studio o dal vivo di Maria Callas.

Quello che nessun’artista né prima né dopo di lei ha saputo fare allo stesso livello, infatti, è far vivere la musica, ricordandoci che l’opera non è un passatempo educato per le élite più abbienti, ma un tumulto violentissimo di emozioni distillate nell’alchimia matematica del suono e nelle tinte forti della parola.

E non importa se la voce trema nella nota più alta del recitativo del primo atto della Norma, subito prima di “Casta Diva”. Non importa se, anche ascoltando le registrazioni degli anni ’50 ci si sente come il pubblico di un acrobata imperfetto, che ne osserva l’evoluzioni d’atleta senza la confortante certezza che vada tutto bene e con il timore costante di vederlo schiantarsi al suolo. Non importa se, anche conoscendo a memoria la registrazione, si resta sempre un po’ col fiato sospeso all’idea che la voce si rompa prima di arrivare al “Fa”.

Se avessimo voluto ascoltare il suono di un cristallo purissimo, avremmo scelto un’altra registrazione. Se avessimo voluto una Tosca dalla recitazione intensa e teatrale, avremmo scelto quella della Tebaldi. Maria Callas non aveva bisogno di essere perfetta – eppure il suo fraseggio e la sua coloratura erano impeccabili, anche quando la sua voce era ancora “enorme”, dando al suo canto un’agilità che pochi soprani drammatici hanno.

Maria Callas non aveva bisogno di essere una grande attrice: in scena si muoveva molto meno delle sue colleghe di allora e infinitamente meno di quelle di oggi. Se recitava, lo faceva con gli occhi. Maria Callas, forse, non sapeva che farsene dei critici e nemmeno del pubblico colto, che in più di un’occasione le lanciò ortaggi piuttosto che fiori: a lei era toccato il dono naturale, che qualcuno chiamerebbe divino, di riuscire a incanalare senza filtrarlo tutto il potere emotivo del grande repertorio operistico occidentale.

La Callas non ha mai interpretato Medea: la Callas era Medea. Non ha mai interpretato la pazzia di Lucia di Lammermoor: l’ha vissuta, rendendola reale. Così l’amore violento e disperato di Tosca e l’indomabilità di Carmen. Come ha detto il commediografo americano Terrence McNally, le altre possono cantare “Vissi d’Arte”, ma solo Maria Callas parlava con Dio.

(di Angela Fiore)