“L’odore della pace”. Racconto ispirato a una terribile vicenda accaduta a Berlino

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Il giorno 8 Maggio 2006, nel cantiere aperto per il rimodernamento per il Monbijoupark in Berlino Mitte, un cane ritrovò il cadavere mummificato di una donna seppellito sotto un cumulo di terreno. Gli inquirenti riuscirono dopo alcuni mesi a identificare il cadavere di donna avvolto in un tessuto mediante il test del DNA. Nome della donna era Kesver Kurt. Secondo le dichiarazioni del marito, Kesver aveva lasciato la casa famigliare una mattina nell’estate del 1992 senza lasciare indicazioni alcune sulla sua destinazione. Questo fatto ha ispirato a L. Zenone il racconto “L’odore della pace“, che in nessun modo riporta dettagli sul caso in oggetto. Tutti i personaggi, i luoghi e le dinamiche descritte sono infatti interamente frutto della fantasia dell’autore. Il nome della protagonista, Dorothy, è stato scelto in associazione con le scarpe rosse, che sono diventate anche un tragico simbolo della violenza di genere.

Photo by Kristina Flour

L’odore della pace“, di L. Zenone

Quella notte si sentiva nell’aria fredda l’odore proprio della pace. Il silenzio ha un odore, pensava Dorothy.

È un odore che ti gela un po’ le narici quando respiri, ma non fa male come il vento freddo che viene dai Sudeti.

Il vento, nei Sudeti, come racconta una leggenda della gente che un tempo abitava la Slesia, sembrava fosse soffiato da un gigante di nome Rübezahl. Un gigante terribile, antico come il monte su cui cresce la foresta nelle cui profondità dimora e, come racconta la tradizione, sempre incazzato.

Molto.

Furioso soprattutto con coloro che si son fatti burle di lui e della sua eternità.

No. Quella sera, l’aria fredda del silenzio non faceva male.

Dorothy odiava, da un paio d’anni almeno, ritornare a casa.

Era solo un tetto, per lei. Nulla che potesse identificarsi con il termine casa. Un luogo in cui non c’erano ad aspettarla loro, i suoi ometti, non poteva essere chiamato casa.

Eppure, quella sera, il ritorno a casa non possedeva quel sapore amaro della solitudine.

Quella sera, il silenzio, un tempo traghettatore oscuro di pensieri malinconici, trasportava con sé tranquillità.

Dorothy pensava che quel suo ottimismo dipendesse forse dal fatto che lui, con cui aveva appena concluso una telefonata – seppur per qualche attimo caratterizzata dai soliti silenzi orgogliosi e da quella voglia di gridarle in faccia tutto l’odio che ora nutriva per lei – avesse mostrato una certa apertura.

Le aveva dato una speranza. Una speranza che attendeva da ormai un paio d’anni: poter rivedere i suoi ometti, anche per qualche minuto.

Forse, addirittura, pensava, avrebbe potuto vederli un pomeriggio la settimana. Insegnargli delle canzoni. Portarli al parco giochi.

Quella sera, pensava Dorothy, il tragitto, l’Oranienburger Strasse, piena di turisti e decorata sui suoi marciapiedi pieni come un albero di Natale da quelle signorine travestite da fiocchi di neve, non aveva quel sapore che lei odiava.

Quella sera, Dorothy aveva ritrovato la speranza. E questo le bastava, per quel giorno, per essere un pochino più felice.

Quella sera, aveva pensato, avrebbe potuto fare un passo. Chiamare.

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Buio. Dolore. Il sapore del sangue. Non lo aveva mai sentito così intenso. La disgustava. Perché non riusciva più a muoversi? Perché tutto questo?

Era cattiva.

Lo sapeva, lo aveva sempre saputo.

Perché un uomo può sbagliare, mostrare il suo lato debole, ed essere accettato?

E perché a una madre non è permesso?

È questo ciò meritava? Si chiese. Pensò che forse tra le righe tracciate dal terrore nei suoi pensieri.   

Respirare le faceva male. Sentiva chiaramente le costole rotte. Era quindi quello, quel tipico dolore di cui aveva già sentito parlare. Quelle fitte che di tanto in tanto ti troncano il respiro.  

Confusione. Il silenzio faceva male. Non poteva più gridare, non avrebbe potuto. Non voleva.

I loro occhi, almeno un’ultima volta. Almeno, ti prego, non ingannare così il mio cuore.  

Lasciare la mia speranza disattesa.

In questo modo.

Imbiss by HerrNovember

Prima però avrebbe dovuto fermarsi al solito Imbiss, quello vicino alla fermata, per prendere qualcosa da mangiare.

A quell’ora era troppo tardi per fare la spesa e poi, con ancora indosso i vestiti da lavoro non avrebbe comunque avuto voglia di incrociare una di quelle signore eleganti o di quelle modelle anoressiche che abitavano quel quartiere.

Lei si trovava a Mitte solo perché si barcamenava tra vari piccoli impieghi, tra cui quello delle pulizie per uno di quei nuovi Store luccicanti che spuntano nelle stradine dell’allora popolare Scheunenviertel. Avrebbe, come al solito, scambiato con l’addetto alla sicurezza due parole sul tempo, fatto un cenno con il capo per ringraziare e si sarebbe diretta al tram, per raggiungere velocemente uno di quei Plattenbau che la nascondevano da ormai quasi due anni da sguardi indiscreti. Ci teneva alla sua privacy. Soprattutto, ci teneva a non essere riconosciuta.

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Photo by Tumisu (Pixabay)

L’ombra, silenziosa, entrò di nuovo nello stanzino scuro dove lei era rannicchiata, con le ginocchia al petto, mani legate strettissime con vecchi legacci.

Il tormento si propose di nuovo, impietoso e terrificante.

Una carezza, un’ultima forse, e poi via giù coi calci. 

Dorothy, rimaneva in silenzio. Non pensava, non riusciva a credere che quelle persone potessero arrivare fino in fondo. In fondo era una di famiglia, le avevano sempre detto.  

Intanto il dolore le impediva di pensare, di rievocare i volti dolci dei suoi ometti. Proprio loro, i suoi due angeli e quel desiderio mai sopito di rivederli che l’ha portata a finire in quel modo.

Berlin, Weihnachtszeit by Jorge Franganillo

Nel tram si vedevano solo volti stravolti. L’inverno era ormai nel pieno. La psicosi prenatalizia assorbiva i pensieri dei cristiani. Lei non festeggiava il Natale. Non ne subiva il fascino, come invece accadeva per altri Turchi di Berlino. Dorothy pensò quindi di avere più di un motivo, quella sera, per essere contenta. Quella sera sarebbe stata una delle poche persone ad avere una luce particolare nello sguardo. Il tram graffiava lentamente i binari ghiacciati. Mancavano poche fermate. Forse avrebbe dovuto farlo senza pensarci su troppo. Due volte il tasto verde. Niente di più facile. Facile come cambiare idea. E, infatti, nello spazio tra uno stop e l’altro, la donna cambiò idea.


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Avrebbe aspettato, rifletté.  Prima mangiare, poi una bella doccia.  Poi, finalmente, avrebbe preso coraggio e avrebbe premuto due volte quel maledetto tasto.

Photo by engin akyurt

Sono un animale. Un animale prima di morire. Morire come un animale. Nel proprio sangue. Come da tradizione.  

Perché? Quale sia il senso di una parola come “tradizione”, la sua ratio intrinseca, l’ho spesso pensato. È proprio la tradizione che mi tiene ferma, ammanettata al mio destino di donna, privata del senso più grande, quello di essere madre. 

Com’è strano, però, che due parole antitetiche come Tradizione e Tradimento abbiano la medesima etimologia in Latino.  

Eppure, sembrano così diverse ma allo stesso tempo così imprescindibili tra loro.

Photo by Heather McKean

Forza, pensava. Che ci vuole? Non perdere tempo, era il momento che aspettavi da tanto, da troppo tempo.

Il dito di Dorothy riuscì in qualche modo a compiere il doppio movimento.

Era contenta nell’appurare che finora nessuno aveva ancora pensato a infilare tra i tuuuu del segnale di libero annunci pubblicitari.

Quei silenzi sono dei momenti preziosi nella vita di ognuno. Ti danno modo e tempo per pensare, valutare, rinunciare.

Come previsto, a rispondere è una voce familiare.

“Pronto? Eh, si, sono io. Quando? Così tardi? Ma non staranno già dormendo? Si, si hai ragione, prendere o lasciare. Certo. Ok. A dopo.”

Immediatamente Dorothy sentì un bisogno impellente, quello di lavarsi via dalle mani la terribile sensazione dell’aver appena sudato freddo. Si diresse in bagno, girò la leva del rubinetto nel verso del puntino rosso. Rapida vi ci  infilò le mani.

Rimase così alcuni secondi, fino a quando non le fu più possibile sopportare il getto d’acqua bollente.

Photo by Claudio Schwarz | @purzlbaum

L’inferno si placò. Sapeva però che in pochi minuti i suoi esecutori avrebbero ripreso a pestarla.

Il freddo dello stanzino non riscaldato rappresentava per lei un conforto. Quella sensazione, il gelo sentito sulla pelle, le dava almeno la consapevolezza di esistere ancora.

Aveva ancora fiducia nella pietà umana.

Ma dove finisce l’essere umano e iniziano quei doveri che non appartengono al libero arbitrio? Sono davvero uomini quelli che le stavano facendo ciò, oppure erano dei manichini, dei mezzi dalla natura umana scelti per garantire la continuità, l’eternità dell’ingiustizia?

Oppure sono stati piazzati li, come Rübezahl sul suo monte, incazzati e decisi nel fare in modo che le cose rimangano come devono essere.

Certo, era strano. Pensava che a quell’ora i suoi ometti fossero già a letto da un bel po’. Beh, comunque era meglio non porsi troppe domande.

Con l’U-Bahn ci avrebbe messo di meno. In circa venti minuti sarebbe arrivata al luogo indicatole per l’appuntamento.

Anche lei pensava che sarebbe stato giusto incontrarsi in un altro luogo e poi arrivare insieme. In tal modo avrebbero potuto anche discutere su come comportarsi, sul registro linguistico da scegliere.

Era davvero piacevolmente sorpresa.

Photo vy Max Muselmann

Il corpo ferito, raccolto su se stesso, gridava forte il suo dolore. Il dolore era immobile. Il dolore prendeva il sopravvento sul resto, sulla ragione e sui desideri. Tutto era destinato ad essere cancellato.

Ridurre i desideri, i sogni, i  ricordi in un pensiero unico e ossessivo.  

Desiderare di non esserci più.

Photo by Corinne Kutz

Uscì dalla stazione.

Lo vide, con le mani in tasca. Aveva un viso serio. Non sembrava arrabbiato.

Dorothy lo seguì, in silenzio, anche perché lui si diresse subito verso la sua macchina, indicandole di salire a bordo con un lieve movimento del capo.

Una volta salita a bordo, lei lo salutò, chiedendogli come stesse. Lui rispose a monosillabi. Non aveva una gran voglia di parlarle.

Dorothy cercò di cambiare discorso più volte, cercando di strappargli un sorriso, di richiamare la sua attenzione nei confronti di un momento che sicuramente anche lui avrebbe gradito.

“Immagina la faccia dei piccoli quando ci vedranno entrare in casa insieme! Non vedo l’ora di riabbracciarli. Forse non dovrei farlo, ma non sono una persona orgogliosa. Volevo dirtelo. Te ne sono grata.”

Lui non rispose. La osservò, per un attimo, annuendo regolarmente con il capo.

Dorothy accettò la scarsa vena dell’uomo e riprese: “Forse è davvero possibile garantire ai piccoli entrambi i genitori. Loro non hanno colpe, e credo non meritino di soffrire a causa delle nostre incomprensioni.”

Lui la fissò di nuovo. Il semaforo era diventato rosso. Per questo motivo il suo sguardo si soffermò per alcuni secondi. Dorothy accennò un mezzo sorriso.

Lui non reagì e mantenne il suo sguardo neutro. Le disse che era d’accordo. Che i piccoli non avrebbero più dovuto soffrire a causa delle loro incomprensioni ed è per quel motivo che aveva deciso di incontrarla per risolvere la questione. Poi smise di parlare e riprese a guardare la strada, continuando a muovere il capo dall’alto verso il basso.

Dorothy fu sorpresa dalla risposta dell’uomo.

Per un attimo pensò di potersi finalmente tranquillizzare.

Per un attimo.

Dorothy smise di essere tranquilla quando vide l’auto lasciarsi dietro il portone del palazzo dove avevano abitato tutti, insieme, fino a un paio d’anni prima.

Il cuore di Dorothy esplose di tristezza. Provò terrore.

Ma non disse nulla.

Photo by Sydney Sims

I ricordi stavano scivolando via.  Confusamente le tornarono in mente i suoi occhi, la sua pelle. Quelle mani impazienti di darle piacere. La sua dipendenza per quelle mani. Quella volta che decise di non rientrare. 

Quelle grida e le botte al suo ritorno.

La porta che si richiuse alle spalle, tra le lacrime. Lacrime di consapevolezza. Quella consapevolezza di essere andata oltre, di essersi opposta a quelle regulae, quelle “leggi non scritte” che la costringevano a non avere pulsioni, desideri, voglia di essere toccata, amata, desiderata.

Si ricordò la potenza degli orgasmi provati con quella persona. Di quegli attimi in cui sentì di avere di nuovo una vita.  

Si ricordò anche di quando quella persona sparì: in poche ore, più o meno le ore in cui era riuscito a sconvolgerle l’esistenza.

Photo by Richard Ciraulo

L’auto si fermò. Intorno a loro tutto era scuro. Dorothy ruppe il suo silenzio. “Dove mi hai portata? Quindi non era cambiato niente. Hai tradito la mia fiducia. Perché vuoi fare proprio questo ai tuoi bambini?”

Lui non rispose.

La portiera dal lato di Dorothy venne aperta di colpo.

La sorpresa le tolse il respiro.

Photo by Dima Pechurin

Tutti i ricordi scivolarono via.

Lentamente. E non sarebbero mai più tornati.

La porticina si aprì di nuovo. Stavolta la persona conosciuta entrò a viso scoperto.

In lacrime, si avvicinava trascinando i piedi, mormorando qualcosa, come una preghiera.

Lei non si oppose. Provò a fissare nei suoi occhi il ricordo dei suoi ometti.

Non ci riuscì.

Le avevano tolto tutto, anche il suo più intimo desiderio di madre.  

Due grosse mani le strinsero la gola.

L’aria cominciò a mancare.

Non sentiva più l’odore del dolore.

C’era solo l’odore della pace.

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