Gülin Mansur: workshop per ragazze provenienti da zone di conflitto. Un safe space per resistere
Gülin Mansur: workshop per ragazze provenienti da zone di conflitto. Un safe space per resistere
di Lucia Conti
Gülin Mansur ha 30 anni, viene da Bayreuth ma vive a Berlino da circa dieci anni. È una musicista professionista con un suo personale percorso artistico, ma è impegnata in moltissimi progetti socialmente utili che coinvolgono, oltre alla musica, la creatività in senso ampio e uno sviluppo consapevole e libero della personalità e dell’autostima.
Tra questi progetti, molto importanti sono i workshop che Gülin gestisce, sia a titolo personale, sia donando il suo contributo a progetti diversi, e che coinvolgono anche operatori sociali ed educatori.
Il progetto “Music for Chance & Change“, in particolare, è un workshop musicale per giovani donne, a volte giovanissime, che sono state costrette a lasciare i loro Paesi a causa della guerra. Questi worskshop diventano dei “safe space” dove queste ragazze hanno la possibilità di cantare, dedicarsi alla scrittura creativa, percepire l’importanza della musica nell’integrazione culturale e diventare consapevoli dell’importanza di essere libere di sentire, esprimersi e vivere.
Abbiamo intervistato Gülin Mansur per voi.
Ciao Gülin, vuoi presentarti ai nostri lettori?
Sono Gülin e sono una musicista, una songwriter e una produttrice musicale. A Berlino conduco dei worskhop sull’empowerment attraverso la musica e in più suono, realizzando anche dei progetti con delle persone rifugiate, che porto con me sul palco o coinvolgo nella produzione musicale. Recentemente ho ricevuto dei finanziamenti e circa tre anni fa ho dato vita a un progetto a cui tengo molto e che riguarda le ragazze, in particolare.
Vuoi parlarci meglio di questa iniziativa?
Incoraggio queste ragazze a rafforzare la loro identità di donne, specialmente perché vengono a volte da contesti che non le incoraggiano a essere libere proprio perché non associano la libertà alla femminilità. Ed essendo io musulmana e venendo da un contesto familiare molto conservatore, mi percepiscono come una persona simile a loro, ma che comunque le incoraggia a pensare con la loro testa. È questo l’empowerment che cerco di raggiungere e lo faccio attraverso la musica, perché con la musica è più facile connettere le persone. In questo a volte la musica supera la parola.
Anche tu hai avuto modo di confrontarti con un contesto che non incoraggiava le donne a esprimersi?
Sì, sono cresciuta a Bayreuth e mio padre era davvero conservatore. Voleva che crescessi in Germania, ma ogni giorno mi diceva anche che appartenevamo a un’altra cultura e a un altro credo religioso e che per questo non mi erano consentiti una serie di comportamenti. Per me era davvero duro vivere in un Paese ma contemporaneamente subire la pressione di un altro contesto culturale e quindi capisco profondamente queste ragazze.
E cosa imparano, queste ragazze, quando seguono i tuoi workshop?
Imparano che possono vivere la loro religione, essere musulmane, ma allo stesso tempo vivere liberamente, godere della musica. Hai presente il film “Sonita”? È un documentario su una rapper afgana rifugiata che cerca la sua strada attraverso la musica, ma soprattutto, la sua autodeterminazione. In Afghanistan, peraltro, è proibito fare musica.
La musica sembra sempre intimorire chi crede nella segregazione di genere. Perché?
Perché porta le donne ad esprimersi anche attraverso un atteggiamento più libero, anche nella scelta degli abiti, e perché incoraggia l’interazione con l’altro sesso e i conservatori non vogliono questo.
Della mia personale esperienza con la cultura musulmana posso dirti questo, mia madre e le mie zie sono abbastanza aperte, ma quando torno a casa sono comunque seccata nel vedere le donne socialmente divise dagli uomini. Nello specifico, vedo le donne sedere da un lato e servire cibo e bevande e gli uomini sedere dall’altra, a bere. Sono sempre separati. Ed è il 2020 e le mie zie sono abbastanza giovani, hanno un’età compresa tra la fine dei trenta e l’inizio dei quaranta. E si comportano come le donne delle generazioni precedenti, non è cambiato niente!
Tornando alle ragazze che accogli nel tuo workshop. Da dove vengono esattamente e quanti anni hanno?
Molte scappano da Paesi in guerra, come l’Afghanistan e la Siria, altre vengono dall’Iran, in generale sono ragazze che si portano dentro il trauma dello sradicamento e dell’impatto con un nuovo Paese, una nuova cultura e una nuova lingua.
In questo io fungo da tramite, anche linguisticamente, ma non solo. Sanno che possono fidarsi di me, che posso capirle.
Per quanto riguarda l’età ho lavorato anche con donne che avevano fino a trent’anni. Ma interagisco soprattutto con le adolescenti, e a volte con le preadolescenti, e quindi ragazze di dodici, tredici o quattordici anni.
Cosa fate durante questi workshop?
Si canta, anche con l’ausilio di vocal coach, si fanno esperimenti di scrittura creativa che poi possono essere anche musicati, si dà fondamentalmente spazio all’autodeterminazione attraverso l’arte e la musica. Come ti dicevo prima, la musica arriva spesso dove le parole si fermano. È un grandissimo motore che fonde le differenze in un’esperienza collettiva universale.
Che impatto hanno queste attività sulle ragazze?
Meraviglioso. Quando arrivano sono spesso tristi, per non dire depresse, ed è perfettamente comprensibile considerando i loro traumi e il loro senso di alienazione, ma aggiungi anche il problema di una burocrazia a volte lenta, che rende la loro posizione a lungo precaria. Dopo quattro ore di workshop invece sorridono, sono felci, interagiscono, le vedo rinascere. E questo mi fa capire quanto importante sia questo tipo di spazio, per loro, e quanto sia necessario.
Si aprono mai con te, al di là delle attività di gruppo che svolgete?
Continuamente. Tendenzialmente guardano a me come a una persona con il loro stesso background, ma che esprime anche un desiderio di auto-affermazione che non sono abituate a vedere nelle loro famiglie di origine e questo le affascina.
“Come può una donna musulmana essere come sei tu?” mi ha chiesto una volta una ragazza. E io ho risposto che la religione non ha niente a che fare con l’oppressione. E che è fondamentale non aver paura di esprimere quello che sentiamo, perché parte tutto da lì. E poi sono turca e questo le riempie sempre di divertita meraviglia.
In che senso?
Ho scoperto che in Afghanistan, ad esempio, la musica e i film turchi sono molto famosi e quindi la Turchia ha questa sorta di alone “artistico” per molti ragazzi afghani, e sicuramente per molte ragazze che frequentano i miei workshop.
Insomma, ti porti automaticamente dietro un alone da star!
Sì, semplicemente per il fatto di essere turca (ride). Ad ogni modo sono felice di avere la possibilità di creare un safe space in cui queste ragazze possano ritrovare la libertà di essere se stesse. E usare l’arte per esplorare il mondo senza più averne paura.
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