Frankie Hi-NRG: l’ignoranza è diventata un valore, è questo il problema
Frankie Hi-NRG, uno dei nomi più insigni e uno degli artisti più seminali del rap italiano, sarà a Berlino con due appuntamenti diversi e ugualmente interessanti. Il 6 febbraio sarà infatti in concerto presso l’Urban Spree, mentre il 7 febbraio presenterà il suo primo libro, “Faccio la mia cosa“, presso l’Istituto Italiano di Cultura. L’incontro sarà moderato da Mattia Grigolo e a seguire si terrà un workshop di scrittura creativa, con inizio alle ore 18.00. Tutte le informazioni relative sono già presenti sul nostro magazine.
Intanto Lucia Conti ha parlato con lui di un po’ di cose e questo è il risultato della loro chiacchierata.
Sei tra i pochi rapper italiani a non ammorbarci con il trittico soldi/street cred/revenge porn che è stato per anni cifra stilistica del genere. Ti senti solo, per questo?
In realtà non sono solo, nel senso che non sono l’unico rapper a declinare il mondo in soldi, puttane e così via. Penso ad esempio ai Colle der Fomento o a Piotta. Diciamo che è una tendenza consolidata soprattutto nei più giovani, per motivi storici.
Quando il rap è esploso in Italia, negli anni novanta, è avvenuto in concomitanza con movimenti politici che hanno fatto sì che i temi della critica sociale fossero prioritari. Poi è cambiata la tendenza e la cifra statunitense, con tutto il suo essere più o meno variegata, ha cominciato a rappresentare l’influenza maggiore per gli artisti nazionali e quindi tutta la società e la cultura si è spostata in quella direzione.
L’Italia ha snobbato a lungo l’hip hop, ma sembra aprire alla trap le porte del mainstream in modo più facile. Perché?
Perché c’è stata un’interruzione nella continuità della cultura musicale. La rivoluzione digitale, lo streaming, hanno rappresentato un argine contro il quale le generazioni precedenti si sono infrante e hanno cominciato a stagnare e le più recenti si sono trovate in un mare magnum completamente autogestito, perché si aveva l’accesso, la dimistichezza e il tempo di riempire di contenuti propri la rete e sono stati i più giovani a sviluppare un linguaggio in questo senso e quelli più âgée a restare indietro. I ragazzini andavano su youtube e poi andavano avanti e i meno giovani ci andavano e non trovavano quello che cercavano. In questo senso c’è stata un’interruzione.
C’è qualche trapper che ti piace?
Sì, qualcosa c’è. Alcuni pezzi di Quentin40 non mi dispiacciono. Tha Supreme è sicuramente molto interessante come progetto ed è assolutamente nella cifra di un ragazzino con una bella fantasia. Però, chiaramente, come in ogni ambito, ci sono alcuni artisti bravi, interessanti e che fanno ricerca e un sacco di gente che invece si schiera e fa roba di genere.
Quanta misoginia c’è nell’hip hop? Parlo di testi, ma anche dello spazio occupato dalle artiste nel corso degli anni
Beh, è sempre stato un genere con una forte predominanza maschile per i motivi più disparati e che ha sempre dato poco spazio alle donne. Va detto che le artiste che hanno conquistato uno spazio all’interno del genere lo hanno fatto non solo a colpi di tette e culo ma di talento vero, perché una come Lil’ Kim, che pure ha fatto dell’esporsi e della sensualità uno dei suoi strumenti, rappa come un demonio. Penso anche a Missy Elliott e a Queen Latifah, che adesso è diventata una regina dell’intrattenimento americano. Io ho i suoi dischi… aveva una rabbia!
E poi mi vengono in mente a tanti artisti rap che hanno avuto con le donne collaborazioni belle e rispettose, penso ad esempio a quella tra Lady of Rage e i Public Enemy.
Quindi consideri importante il contributo delle donne nell’hip hop?
Alcune donne dell’hip hop sono fondamentali. Considera che Rapper’s Delight, una sorta di esperimento-forzatura creato “in laboratorio” per fare successo e che di fatto è il primo disco di rap, è stato prodotto da una donna, Sylvia Robinson, la discografica della Sugar Hill Records. Questa donna ha reclutato davanti a una pizzeria del New Jersey tre ragazzotti, li ha fatti cantare sulla cover di una canzone uscita tre settimane prima, “Good times” degli Chic, e ha fatto uscire il primo disco rap.
E per quanto riguarda invece determinati testi, che alternano l’oggettificazione sistematica del corpo femminile alla celebrazione della violenza di genere?
È un fenomeno molto diffuso, ma non riguarda tutti. E comunque la società è misogina nel suo complesso, in maniera più o meno ipocrita e pettinata. I maschi prevaricano per costume. È un dato di fatto ed è questa la cosa che deve cambiare.
Cosa ne pensi a questo proposito delle recenti polemiche sulla trap?
Ecco, per quanto riguarda la trap italiana è strano, ma lì percepisco a volte una forma di strana misoginia, fatta di un’alternanza tra parole spese per descrivere relazioni fatte di pura sessualità e fruizione della “femmina” e momenti invece di grande romanticismo, ma quasi stucchevole, consumato con le parole semplici di un’esperienza quotidiana di ragazzi che fumano, scopano, fumano, scopano, poi escono e vanno a prendersi un kebab. Ho trovato in questi testi grande struggimento. E rispetto all’hip hop di una volta, molto meno machismo.
Tutto questo evoca quasi un mondo infantile, fatto di violenti colori primari
Sicuramente. E il bambino, più o meno viziato o vizioso, è sempre stato il protagonista dell’hip hop, oltre che il suo inventore. Il party in cui l’hip hop è nato era una festa delle medie. Quelli che hanno inventato la breakdance avevano 8, 10 o 12 anni. Lo scratch è stato inventato da un ragazzino di 12 anni, con la madre che si incazzava perché faceva troppo casino. Il bambino, nell’hip hop, è sempre stato centrale, e molti sono gli artisti che si ritraggono da bambini, come Nas o Notorious B.I.G..
A questo aggiungiamo che in Italia, oggi, si è costretti a restare bambini per un sacco di tempo, a uscire sempre più tardi da casa dei genitori. E questo porta a un’infantilizzazione prolungata, a un protrarsi dell’adolescenza, che finisce per sconfinare nell’età matura.
Tornando alla trap, hai parlato di un tasso inferiore di machismo e persino di sconfinamento nel melenso. Tutto questo decisamente non sembra compatibile col gangsta rap…
Ma tu te lo immagini Dr. Dre con la pelliccia rosa o KRS-One con la parrucca ossigenata o Method Man vestito da Gucci o da Versace, con quelle camicie terrificanti tutte a fiori che sembrano tappezzerie di cessi patrizi dell’800? È tutto molto più morbido e soffice, anche dalle nostre parti.
Non parlo di tutti, chiaramente, ci sono artisti che arrivano da situazioni di periferia e scelgono il codice comunicativo della trap per raccontare le loro storie. Artisti come Izi o Tedua non sono caramellosi come Sfera Ebbasta o la Dark Polo Gang, per esempio. In generale, comunque, c’è meno machismo. Il problema è che vengono dette con estrema normalità e noncuranza delle cose atroci.
Quanto spazio ha la cultura nello Zeitgeist attuale?
L’ignoranza è diventata un valore, è quello il problema, e quella che una volta era la sbruffonaggine di ignoranti isolati che stavano bene nella merda, ci stavano belli tiepidi e ne erano orgogliosi, è diventata un fenomeno di massa. Adesso c’è tanta gente che dichiara con fierezza la propria ignoranza e fa delle affermazioni assolutamente arbitrarie in contrapposizione al parere di gente qualificata, che ha studiato e le cose le sa.
È un fenomeno che ti sembra recente?
Prima non succedeva. Una volta c’era un po’ di pudore, se ero ignorante non mi mettevo a parlare di politica con quello che faceva, che so, l’Ambasciatore in Giappone. Non andavo a rompere il cazzo all’epidemiologo sulle epidemie. Mica mi sono mai sognato di pensare che Danilo Mainardi, intervistato da Piero Angela, mi stesse dicendo delle cazzate, anzi, ho sempre capitalizzato quell’informazione come veritiera, me lo stava dicendo Piero Angela, mi fidavo. Ecco, oggi Piero Angela si ha più la libertà di mandarlo affanculo!
Hai esordito nel 1992. Come hai visto cambiare il mondo della discografia?
Non esiste più il mestiere del discografico, è un mestiere perduto, è un po’ come il maniscalco, il ciabattino, lo spazzacamino o lo zampognaro.
Ora i mestieri funzionano in modo diverso. Una volta, ad esempio, il lattoniere andava in giro a guardare com’erano messe le grondaie delle persone e segnalava quelle rotte. Adesso il lattoniere aspetta le telefonate, non si muove più da casa, utilizza un sistema che gli indica dove sono le grondaie che necessitano di più attenzione e dove può massimizzare il suo guadagno.
E il discografico va sui social…
Il discografico va sui social e prende un artista solo se ha già una fanbase di almeno 100.000 persone su youtube. Il lavoro se lo deve fare l’artista. Una volta l’artista faceva l’artista, era bravo a cantare e c’erano il discografico e il manager che gli costruivano un mondo intorno.
Oggi invece il DIY è diventato sistema
Adesso l’artista deve imparare tantissimi mestieri. Intanto deve organizzarsi per produrre la sua musica e quindi o imparare a farlo o avere degli amici specializzati nel settore. Poi deve farsi i video o farseli fare da altri amici, sempre in base allo stesso principio. E poi deve promuoverla, ‘sta roba. Deve farsi un culo così.
Nel momento in cui arrivano i risultati allora puoi entrare nell’occhio del discografico, che a quel punto ti prende e ti utilizza come utilizza tutti gli altri, vale a dire contratto, percentuale, in alcuni casi investendo anche delle risorse su di te, in altri fottendosene bellamente.
Suoni molto critico…
Io rimpiango il lavoro del discografico, da loro ho imparato tante cose. È un mestiere molto bello, fatto di coraggio, iniziativa, guasconeria e della possibilità di influenzare il corso culturale.
Cosa hai imparato dalle tue esperienze nell’ambito della discografia italiana?
Ad esempio io ho lavorato con Riccardo Clary, il primo discografico della BMG Records, ed è stato veramente formativo. Lui era responsabile del settore internazionale e quindi si occupava di questi artisti che arrivavano dall’America e che venivano prelevati in aeroporto, accompagnati a fare il giro delle interviste, poi nella location di Roma in cui si teneva il concerto e poi, il giorno dopo, riaccompagnati di nuovo all’aeroporto. Facevano da ufficio stampa, da autisti, un po’ così.
Io all’epoca pensai che fosse un peccato che quella grande casa discografica non avesse un settore alternativo, quando nel settore alternativo invece stavano succedendo un sacco di cose, così lo feci notare. E l’idea prese piede, con due progetti. Uno era Lory D, un dj rave estremo conosciuto in tutto il mondo e di super-nicchia, e poi c’era il mio disco.
Un risultato a dire poco pionieristico
Siamo stati un esperimento, i primi due artisti alternative elaborati dalla sezione international di una casa discografica. Ma quell’esperimento ha formato dei discografici come Carlo Martelli, che in seguito, quando lavorava alla Virgin, un giorno scelse a caso da un mucchio di cassette, accese lo stereo, ne sentì uscire la voce di Caparezza (all’epoca Minimix, ndr) e disse “Ahò, ma questo è forte, ma questo mi piace! Perché non lo chiamiamo?”. Hanno chiamato, telefonando al numero scritto su quell’audiocassetta.
Chi sa usare bene le parole, tra i tuoi colleghi?
Pacifico, Riccardo Sinigallia, Daniele Silvestri, Bianconi.
Cosa non sopporti in questa Italia del 2020?
Il fatto che si sia trascinati a dover trattare le opinioni come se fossero squadre di calcio per cui si tiene o non si tiene, soprattutto perché, avendo come matrice un tifo calcistico non troppo evoluto, non sappiamo tifare un granché in Italia.
Nel tifo secondo me è necessario incorporare delle qualità dell’avversario e non negare qualunque aspetto dell’avversario perché “Noi semo li mejo”, “O con noi o contro di noi”, “Chi mi ama mi segua”, “In, out”. È un po’ troppo binario ed essere binari in Italia non è un granché, perché si arriva sempre in ritardo (questo è un guizzo tipicamente Frankie, ndr).
E cosa ti inquieta, invece?
Quelle signore sessantacinquenni con la bava alla bocca che bramano possedere una pistola. E non è la signora in sé, il problema, ma è il sistema che ha portato quella donna a cercare conforto e a trovare realizzazione in quella versione di se stessa. Poraccia. Si meritava di meglio, quella donna.