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Non è vero che è solo un libro. L’esordio letterario di Irene Salvatori da Mondolibro, il 22 novembre

Photo by Barbara Cardini
di Francesca Addei

È uscito da poco, e già alla seconda ristampa con Bollati Boringhieri, “Non è vero che non siamo stati felici”, il primo libro di Irene Salvatori. Ma queste 272 pagine indossano qualcosa di diverso per me.

Immediatamente la percezione che ho è quella di non trovarmi davanti alla solita lettura a cui mi avvicino curiosa. Perché io e la sua autrice abbiamo tre leggerissime, eppure fondamentali, cose ad unirci.

Un dove:
il delizioso caffè a due passi dal canale dove, tra comodi divani, porcellane polacche e torte a prova di tristezza, sono stata accolta quando Berlino non era ancora casa ed io cercavo parole da dire e da ascoltare nella mia lingua, per non sentirmi solamente un’estranea.
È proprio lì che ho conosciuto alcune delle persone che ancora oggi abitano i miei giorni migliori e peggiori. Lì ho stretto delle amicizie vere, i cui nodi sono state appassionate e lunghissime discussioni sui libri e sulle vite che li accolgono dentro. Ho incontrato gente
interessante che poi non ho mai più rivisto. Ho scoperto che il mio cuore non riesce a tollerare tre caffè americani. Ho letto in silenzio e l’ho fatto ad alta voce. Ho svernato, quando l’inverno era ancora lungo e difficile da superare.

Un perché:
la ferma convinzione che alla morte si risponda con la vita. Un automatismo che fa click nella testa e che un giorno, quando un genitore si fa vulnerabile e si ammala, può scattare e prendere la forma di una reazione istintiva. “Allora faccio un figlio”. La vita che mi ha dato la vita si sfuma e si fa leggera? Io corro a colorare i bordi di un’esistenza nuova di zecca. La creo, disegnandola col pastello a cera, tratto grosso. Una vita che va, per una vita che arriva, uno scambio.
Al di là dell’input simile, le nostre esperienze, per fortuna e anche purtroppo, hanno poi preso strade opposte: nel mio caso né la morte, né la vita si sono realizzate davvero, mentre nel suo sì. Ci sono state, nei suoi giorni e fortemente in evidenza tra le pagine di questo romanzo, la morte di sua madre e la vita dei suoi tre figli. È per questo che siamo qui ora e non me ne vogliate, ci stiamo arrivando. Ma prima c’è ancora il terzo punto in comune ed è fondamentale.


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Un come:
Nemo, il viaggio nel Nautilus. La metafora che userà nel libro per parlare del fondamentale percorso di analisi che le ha salvato la vita. Perché noi due abbiamo condiviso il porticciolo e anche il capitano coi bottoni dorati sulla giacca.
Una volta ci siamo persino incrociate al molo, se non ricordo male: io scendevo e lei salpava; c’è stato uno di quei sorrisi imbrarazzati di chi finge di non saperne nulla e invece.

Il capitano che tutto sa e che l’accompagna nel lungo viaggio dentro se stessa, a vedere la sua stessa vita attraverso gli oblò di un sottomarino.
La descrizione coraggiosa di quel viaggio in mezzo a roba talmente schifosa che non ci sembra nemmeno possibile averla prodotta, è qualcosa che colpisce per la meravigliosa verità che racchiude.

Questa è lei, Signora” dice Nemo a un certo punto, di fronte alla reazione di Irene davanti a un qualcosa che succede di sputare fuori durante viaggi di quel tipo. Leggere i passaggi in cui il capitano le salva la vita “semplicemente” mostrandole chi è, è stato un esercizio di verità commovente.
A volte è tutto qui, dobbiamo solo guardare.

Irene Salvatori
Photo by Barbara Cardini

Irene ci racconta attraverso una metafora che odora di casa, di aver aperto con Nemo tutti gli armadi e i cassetti, controllato la biancheria, divisa quella nuova da quella da buttare, persino le mutande coi buchi. E che altro è, in fondo, un percorso di analisi se non questo?

E così, dicevo, un giorno come un altro di non troppo tempo fa, quando la città si prepara al buio che durerà mesi, Irene mi scrive e mi travolge di parole: “Hai visto il libro? È uscito. Hai sentito? Lo hai letto?”. Non ci sentivamo, né tantomeno vedevamo, da anni.

Io ero venuta da poco a sapere del romanzo e aspettavo la presentazione che ci sarebbe stata il 22 novembre in una libreria italiana a Mitte, quindi le rispondo “No, non ancora, ma verrò alla presentazione e lo prenderò lì”. Macché, figuriamoci e mica si può aspettare così tanto e allora mi costringe a correre a leggerlo prima di quel giorno e a farlo, per di più, su di uno schermo piccolissimo. Io, che all’entuasiasmo non dico mai di no, lo faccio.

Irene Salvatori
Photo by Barbara Cardini

La prima cosa che mi sono ritrovata a fare dopo aver letto le prime frasi, è stato fermarmi ed annusare l’aria come un cane: speravo con tutte le mie forze di non aver perso l’odore di mia madre. Di avere ancora da qualche parte dentro le narici, in mezzo agli odori di oggi, quel profumo di carta e inchiostro e di sugo per le lasagne la domenica mattina.

E poi mi sono messa all’ascolto con tutto il corpo, terrorizzata all’idea di non ritrovare più la sensazione “dell’acqua di madre” intorno. Quell’acqua – elemento in cui tutto il romanzo è immerso – che ci ha creati e che ci tiene in vita, anche se solo nel pensiero e nei ricordi. Così ho preso il telefono e ho scritto un messaggio inutile a quella madre che ho lasciato lontano da me. L’ho fatto solo per dirmi ok, è qua, ce l’hai ancora. Non è andata da nessuna parte.
Perché lo schiaffo più doloroso che questo libro ci riserva già dalle prime righe, è che Irene da quell’acqua di madre, è stata sbalzata fuori senza che ne fosse in alcun modo preparata. Come togliere le bombole a un sub sott’acqua e dirgli dai ora respira.

Annaspo con lei per qualche pagina ma poi la osservo mentre si mette all’opera: come quando la immagino impastare la farina per fare il pane, senza però che ci sia nessuno a ricordarle di rimboccarsi le maniche prima di iniziare.
Il lavoro che le vediamo fare tra le righe, è accettare l’assenza di sua madre, e il modo che lei trova per farlo è scriverle e raccontarle la sua vita. Lo fa su delle vecchie agende che appartenevano proprio a lei e sulle cui pagine, ci fa notare, i figlioli non appaiono mai. Ci scrive sopra, come per ricalcare un esserci, un essere parte di quel legame imprescindibile e le racconta gli ultimi difficilissimi anni vissuti senza di lei, in apnea e in fuga.

Irene ha due mani e tre figli da tenere e poi tanti cani, aggiungo io. E allora come si fa? Come si riesce a tenere tutto? Mi concedo per questo la fantasia di vederla con una mano che le sbuca dalla schiena, tesa e pronta a riacciuffare la madre che, a volte, ci sembra solo rimasta indietro, in alcuni passaggi speriamo davvero che sia così.
Se mi raggiungi ti acchiappo eh, che credi?

Perché non può essere, forse si è solo persa, travolta dalla frenesia della vita e se ora torna, lei la prende al volo e se la trascina dietro, insieme a loro in quello sgangherato, colorato treno senza una meta precisa eppure inarrestabile. È un’immagine in cui starebbe così bene. È un treno che va sott’acqua questo libro.

Un treno-casa pieno di libri, bambini, cani, amici. Pieno di lingue diverse, di farina e dolci.
Pieno di assenza. Pieno di amore, di speranza, dolore e paura. Di ricerca continua e ferite aperte.
Un treno colorato e caldo a bordo del quale lei attraversa le stanze delle sue case, le vie di
quartieri diversi tra loro, la foresta di Grünewald, l’Europa e la vita tutta.

E noi con loro.

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