Il Museo Egizio di Torino all’IIC di Monaco. La rivoluzione gentile di Christian Greco
di Pasquale Episcopo
Tra gli oggetti più belli custoditi nei musei di Berlino c’è il busto di Nefertiti. Si trova all’interno dell’Ägyptisches Museum und Papyrussammlung del Neues Museum ed è considerato uno dei capolavori dell’arte egizia, con un valore stimato di oltre 500 milioni di dollari.
Nefertiti fu una delle donne più potenti della storia. Visse tra il 1370 e il 1330 a.C. e fu moglie del faraone Akhenaton. Alcuni reperti archeologici hanno recentemente permesso di affermare che Nefertiti fu “coreggente”, ebbe cioè lo stesso rango del faraone. Alla morte di Akhenaton governò da sola prima di lasciare il potere a Tutankhamen.
I musei di tutto il mondo non sono solo esposizioni di oggetti. Con i loro archivi e le loro biblioteche sono per eccellenza luoghi di ricerca, studio e conoscenza. Spetta ai loro direttori, e a tutto il personale che ci lavora, il compito di portarli al centro dell’interesse della collettività e farne luoghi di assidua frequentazione da parte dei cittadini.
Lunedì 13 maggio, Christian Greco, egittologo, dal 2014 direttore del più antico museo egizio del mondo, e del più grande dopo quello di Cairo, ha intrattenuto il pubblico dell’Istituto di Cultura di Monaco di Baviera in una conferenza-intervista tanto interessante quanto emozionante.
Interessante per l’argomento trattato, emozionante per la passione con cui l’argomento è stato trattato. Greco ha risposto alle domande di Jessica Distefano, dottoranda in egittologia e coptologia della Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco.
Fondato nel 1824, il Museo Egizio di Torino ha una collezione di decine di migliaia di reperti. Quelli esposti sono 3300, in un percorso che copre circa 4000 anni di storia. Dal 2004 l’ente responsabile della gestione è la Fondazione Museo Egizio di Torino. Dopo importanti lavori di ristrutturazione e ampliamento il museo ha riaperto, nel 2015, con una superficie espositiva più che raddoppiata e 5 km di percorso museale.
Nel 2018 i visitatori sono stati circa 850.000. Greco ha rimarcato che, a partire dalla riapertura, il museo non ha più avuto finanziamenti pubblici o privati. “Nel 2018 il bilancio è stato di 12,6 milioni di euro, guadagnati unicamente dal museo con la bigliettazione, con le mostre itineranti e con la vendita dei libri. In Europa musei della nostra entità hanno bilanci ben più alti, intorno ai 60 milioni di euro”. Greco ha poi parlato dei progetti in cantiere.
Il museo egizio impossibile
“La sfida di tutti i musei egizi è quella di poter realizzare, nel XXI secolo, il museo egizio impossibile. La maggior parte delle collezioni che abbiamo in Europa si sono formate nel corso del XIX secolo e hanno portato a uno smembramento di contesti unitari.
Esemplare è il caso della scoperta di una tomba tebana, appartenente a Djehutymes (grande intendente del tempio di Amon e prete imbalsamatore) e la divinità egizia Iside, fatta nel 1819 dall’archeologo piemontese Antonio Lebolo. La tomba risale all’età ramesside, ma ha anche una occupazione molto successiva, risalente al periodo imperiale romano di Traiano e Adriano.
Non riuscendo a vendere la tomba interamente a un unico collezionista, Lebolo la frazionò e la vendette a diversi collezionisti.
Risultato: Torino ha l’occupazione di età ramesside con i sarcofagi di Thutmose (dinastia di faraoni) e Iside e con una piccola mummia di 4 anni, appartenente a un bambino di nome Petamenofi, relativa all’occupazione di età romana.
La zia di Petamenofi, Sensaos, si trova in Olanda nel museo egizio di Leiden; i nonni si trovano a Londra nel British Museum; i genitori si trovano al Louvre; i fratelli e i cugini si trovano nel museo egizio di Berlino.
Questo è un esempio di cosa sono i disiecta membra, espressione che non rappresenta soltanto una collezione sparsa, ma separata dal suo contesto archeologico originale.
La tomba è tuttora oggetto di scavi e nel 2021 il Museo Egizio di Torino parteciperà a una mostra che metterà insieme parti delle collezioni nel loro contesto archeologico originale. Inoltre, grazie alla digitalizzazione, verrà realizzato il museo egizio impossibile, riparando i danni fatti nel XIX secolo.
Torino, Leiden, Berlino, Londra e Parigi, cinque grandi collezioni europee e la madre di tutti i musei, quello di Piazza Tahrir al Cairo, uniti nel condividere informazioni sull’immensa collezione archeologica egizia”.
Il lascito di Ernesto Schiaparelli: la ricerca
La storia del Museo Egizio di Torino è legata indissolubilmente alla figura di Ernesto Schiaparelli, che ne fu direttore dal 1894 al 1928. Jessica Distefano ha accomunato lo sforzo innovativo di Christian Greco a quello di Schiaparelli.
“L’unica cosa che ho in comune con lui è essere diventato direttore a 39 anni. Ernesto Schiaparelli è stato il più grande direttore che il museo egizio ha avuto e mai potrà avere, per il semplice fatto che ha portato 35.000 reperti al museo. La sua lungimiranza è stata quella di portare la ricerca al centro dell’attività del museo. Un museo senza ricerca non esiste. Un museo senza ricerca muore.
Molti ritengono che i musei devono continuare a comprare pezzi per la propria collezione. Io ho deciso di non farlo. Il museo egizio potrà tornare a comprare solo dopo aver completato la ricerca e lo studio sulla sua attuale collezione”.
Ma la ricerca ha bisogno di competenze e dunque di personale.
“All’inizio del mio mandato, in una riunione del consiglio d’amministrazione mi fu proposto di licenziare il personale scientifico. Risposi: cominciate da me. Sono arrivato che avevo 13 dipendenti. In cinque anni li ho portati a 51. Alla scadenza del mio mandato (previsto per il 2024, ndr), vorrei fossero 200.
Ogni anno investo gli avanzi di bilancio in borse di dottorato. Io non vedo alcuna differenza tra il museo e una università. La ricerca va condotta attraverso gli scavi archeologici, ridando contesto alla collezione. Ma anche sugli archivi, sulla cultura materiale disponibile, gran parte non ancora pubblicata, come i 26.000 frammenti di papiro provenienti da Deir el-Medina, che costituiscono uno degli archivi amministrativi più importanti dell’antichità.
Questa ricerca siamo riusciti a finanziarla grazie al progetto Crossing Boundaries, in collaborazione con le università di Basilea e di Liegi e ci permetterà di assumere due dottorandi e due post-dottorandi.
Museo e territorio
Jessica Distefano ha poi chiesto a Greco di parlare del rapporto del museo con il territorio.
“Ho preso servizio il 28 aprile 2014. Il giorno prima in un’intervista al Sole 24ore ho parlato delle cose che volevo fare, tra cui quella di portare il museo fuori dal museo.
Una delle prime iniziative che abbiamo fatto è stata quella di portare il museo nel dipartimento pediatrico oncologico dell’ospedale infantile Regina Margherita di Torino. Andare a parlare a dei ragazzini che avevano appena avuto la chemioterapia è stato un momento di sollievo per i ragazzi e di grande crescita per me e per il mio personale”.
Stessa cosa è successa con i detenuti del carcere di Torino, ai quali Greco ha regalato una serie di lezioni che li hanno appassionati tanto da far diventare la tomba di Kha (architetto al servizio del faraone Amenofi III) oggetto del programma di maturità.
E poi ci sono loro, i nuovi italiani, gli immigrati.
“Solo in Val Padana abbiamo 1,1 milioni di egiziani. L’Italia ha l’onore e l’onere di custodire una collezione che italiana non è, ma appartiene al mondo. Il mio desiderio è che il museo egizio diventi la più grande ambasciata dell’Egitto fuori dall’Egitto, un luogo in cui gli egiziani possano sentirsi a casa, in cui poter percepire la gratitudine dell’Italia nei confronti del loro paese”.
Ponte tra culture
E non poteva mancare, a questo punto, la domanda sullo scontro, amplificato dai media, tra Christian Greco e Giorgia Meloni, segretario del partito “Fratelli d’Italia”. La Meloni, nel febbraio 2018, aveva accusato Greco di avere un atteggiamento di favore nei confronti dei cittadini arabi.
“L’anno scorso sono stato attaccato pesantemente da un membro del parlamento e segretario di partito che ha protestato per gli sconti offerti con l’iniziativa Fortunato chi parla arabo. Dopo quell’episodio, tutti, dalla CNN, a El País, al New York Times, volevano parlare con me. Ma io non ho parlato con nessuno. Parlerei volentieri con loro, ma non di queste polemiche, bensì di quello che siamo e che facciamo”.
Apriamo una parentesi per dare alcuni dettagli. L’episodio riportato risale a circa un mese prima delle elezioni politiche nazionali del 4 marzo 2018, dunque è avvenuto in piena campagna elettorale.
Giorgia Meloni si era presentata sotto il museo con uno striscione riportante la scritta No islamizzazione. Greco era sceso in strada per spiegare i motivi dell’iniziativa, peraltro già evidenziati nel sito del museo: “Stimolare la fruizione dell’offerta culturale della città per consentire ai cittadini di lingua araba di essere sempre più parte della comunità con cui hanno scelto di vivere”.
L’iniziativa aveva avuto luogo, con successo, già un anno prima e anche Matteo Salvini aveva espresso le sue critiche. Non con uno striscione, ma su Facebook: “Fortunato chi parla arabo. Questa la pubblicità con cui Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino, fino a marzo offrirà biglietti scontati (due al prezzo di uno) solo ai visitatori che sanno parlare in lingua araba. Sei italiano e parli italiano, o piemontese? Sei sfortunato, paghi tutto. A me sembra una roba da matti. A voi?”.
Che Salvini faccia un uso disinvolto di messaggi sui social è noto a tutti. Oggi è al governo e le sue affermazioni appaiono premonitrici di una politica che sembra non avere in grande considerazione né la cultura in generale, né l’integrazione tra culture in particolare. Chiudiamo la parentesi e torniamo a Christian Greco.
“A seguito di quell’iniziativa è venuta una famiglia di egiziani, in Italia da 25 anni. Genitori della mia età con i loro figli. Il marito autista, la moglie donna di servizio. Non sapevano che esistesse il museo egizio. Erano vestiti benissimo, lui in giacca e cravatta, lei in abito lungo. Sono entrati, dovevano starci un’ora e sono rimasti sei ore.
Alla fine ci hanno detto che non si aspettavano di vedere che gli italiani facessero la fila per venire a conoscere la cultura del loro paese, la cultura di noi egiziani, che in Italia siamo gli ultimi.
Questa famiglia e la felicità e la fierezza che ho visto nei loro occhi ci fanno capire quanto c’è da fare nell’immigrazione.
Questa e tante altre iniziative, al di là delle critiche, sono state attuate per dire che il museo esiste. Per dire: Venite, siete i benvenuti“.
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