Potrebbe piovere: Berlino pop-storica e ricordi d’adolescenza
di Riccardo Coradeschi
Ogni tanto, scorrendo i titoli nelle playlist di Spotify, mi trovo ad indugiare su canzoni che
ascoltavo assiduamente durante l’adolescenza. Messe insieme probabilmente formerebbero una hit parade della vergogna: un’orripilante idra con decine di teste, tutte diverse ma tutte ugualmente imbarazzanti.
Talvolta però mi dimentico di quanto fossero tremende, e decido di sfidare la sorte. Premo play, tendo l’orecchio sperando in un’ondata di nostalgia. Inevitabilmente l’ondata si rivela essere uno tsunami di disagio canoro.
La trappola dell’adolescenza
Qualche tempo fa, mentre scorrevo la bacheca di Facebook, vidi la nuovo foto profilo di una vecchia fiamma di una quindicina d’anni fa, anch’essa relegata ai ricordi della prima adolescenza. Gli hashtag includevano #spensieratezza e #smileface, e nella foto lei sorrideva in posa buffa. La foto, però, era chiaramente stata scattata in mezzo al memoriale dell’Olocausto, sulla Eberstraße.
Fui colpito dalla stessa sensazione che mi ha travolto l’ultima volta che ho ascoltato “Pieces” dei Sum 41, ma meno sdolcinata. Al di là di questa tragica scoperta, però, l’episodio mi ha fatto pensare a quanto sia ancora strano, per me, veder spuntare in giro per Berlino le facce che hanno caratterizzato la mia vita in Italia.
Nelle poche occasioni in cui gli amici di sempre sono venuti a trovarmi, vederli per le strade di Mitte aveva un retrogusto surreale. Ho raccontato in precedenza di come io sia incapace di vivere da adulto in Italia, ma la situazione si complica quando l’Italia mi raggiunge qui.
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Il fascino discreto del provincialismo
Prima del mio matrimonio, i miei due migliori amici e testimoni vennero finalmente a visitare la mia città di adozione. “Arsch!” (culo, n.d.r.) esclamò uno dei due mentre salivamo sull’S-Bahn, assaporando l’esotica volgarità dell’esclamazione. “Arsch! Suona bene!” ripetè, ridacchiando. Le due attempate signore sedute sull’altro lato del vagone ci guardarono sorprese. Io d’altra parte ero combattuto tra lo sghignazzare (il mio livello di
comicità ha smesso di evolvere al decimo compleanno) e il riportare ordine e contegno nel
gruppuscolo di facinorosi italiani.
In quel momento desideravo mostrarmi cosmopolita, un raffinato conoscitore della città e dei suoi abitanti. Davo consigli sui luoghi “meno turistici” e mi dilungavo in dettagliate disquisizioni sulla storia e la politica di Berlino. In breve: sfoggiavo i peggiori tratti di un provincialismo che non riesco a scuotermi di dosso.
Vederli vicini a me, però, scatenava allo stesso tempo un desiderio di adolescenza vacua e
disimpegnata, passata a discutere piani per l’età adulta. Mi chiedo se fossero piani irrealizzabili, o semplicemente irrealizzati. Poi mi domando anche se pure questo non sia solo un provincialismo strisciante, ansioso di dimostrare una nostalgia e profondità consona alla vita della capitale.
Ed ora mi chiedo se scriverlo qui non sia la stessa cosa, un tentativo di sentirmi più berlinese cercando di apparire più berlinese. Forse il motivo per cui gli amici in visita mi destabilizzano è che mi ricordano che tanto berlinese poi non sono.
Come per i Krapfen delle Bäckerei nelle stazioni della metro, anche per me “Berliner” sembra un appellativo decisamente esagerato.
Berlino è un simbolo
D’altro canto, questa sensazione si attenua quando sono i miei genitori a visitare la città. Ormai sono degli habitué: hanno visitato tutti i musei (o per lo meno il Pergamon), visto il Muro, esplorato i bunker, trangugiato currywurst e birre (oltre alle tragiche frittelle di mela dei mercatini di Natale di Alexanderplatz).
Nonostante questo, alcune cose non sono cambiate negli anni. “Questa era Berlino Est oppure Ovest?” rimane la loro domanda più frequente. Nati e cresciuti nel pieno
della Guerra Fredda, fatico a comprendere la natura nevralgica e quasi mitica che Berlino aveva assunto durante la prima metà della loro vita.
Io, che mi sono perso il crollo del Muro di appena 383 giorni, sono venuto al mondo in un’Europa diversa. Pensare alla città divisa è per me riflessione storica, ma per loro è memoria personale. Avevano poco meno dell’età che ho io ora, il 9 novembre ’89, ma è una data che mi è sempre sembrata appartenere ad un passato più remoto: la grande cesura tra Storia e storia.
Quasi ogni giorno esco dal mio ufficio ad ora di pranzo e passeggio attorno al Checkpoint Charlie, schivando orde di turisti che fotografano gli attori in costume e bancarelle di colbacchi e maschere antigas. Sembra una recita scolastica della Guerra Fredda, con fondale di cartone e costumi fatti in casa, ma nessuno sembra curarsene. Non sembra esserci soluzione di continuità tra storia, memoria e messa in scena, la narrazione diventa simultanea e universale.
In questo senso le visite di famiglia e amici mi costringono a interrogarmi e riposizionarmi
all’interno di questa Berlino pop-storica, andando oltre la mia routine, i sentieri e l’identità che mi sono scavato all’interno della città che più è stata stravolta dal Secolo Breve.
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