IDAHOBIT 2019: perché l’omo-bi-transfobia non è paura, ma odio
Oggi è il 17 maggio, giornata internazionale contro la omo-bi-transfobia (ovvero, IDAHOBIT 2019). Stamattina, come tutte le mattine, ho acceso la radio, in quell’ora in cui si è capaci a malapena di fare il caffè, e ho registrato confusamente la notizia dal livestream di RadioEins. E mi sono ricordata del perché ami la lingua tedesca, nonostante le frustrazioni che il suo utilizzo quotidiano mi provoca. In tedesco, omo-bi-transfobia, si dice Homo- Bi- Trans*- Feindlichkeit. I rispettivi termini “Homophobie”, “Biphobie” e “Transphobie” esistono e sono ancora diffusi, ma i media stanno cominciando a utilizzare sempre più spesso gli equivalenti che contengono “Feindlichkeit”. Per chi non fosse pratico delle sottigliezze di questo splendido idioma, il termine deriva da “Feind”, ovvero “nemico”. Questa semplice variante ha risolto un problema che ho sempre avuto con i termini “omofobia”, “bifobia” e “transfobia”, ovvero quella sottile legittimazione data dall’idea di “paura”.
Ma paura di che? Io ho paura dell’altezza, ma ho ragione: se cadessi dal balcone, mi farei molto male. E ho paura dei ragni, ma ho ragione: tutti sanno che i ragni vogliono conquistare il mondo. Ma l’omofobo, il bifobico, il transfobico, esattamente, di cosa hanno paura? Che qualcuno faccia loro un complimento non gradito sull’autobus? Perché in tal caso io sono pronta a dichiararmi maschioeterofobica e così praticamente tutte le donne – sia cis che trans – del pianeta. E se sono le persone queer a correre il rischio concreto, quasi in tutto il mondo, di essere discriminate, aggredite per strada, licenziate, cacciate da casa, quando non addirittura arrestate o uccise, perché dovrebbero essere gli altri ad avere “paura”?
Ho sempre trovato sottilmente passivo-aggressivo il termine omofobia e i suoi omologhi. È un modo di giustificare il proprio odio, la propria arroganza, la pretesa di discriminare liberamente, di aggredire, di imporre il proprio stile di vita sul prossimo. L’omo-bi-transfobico medio, fra l’altro, spinto a giustificare il proprio atteggiamento, dirà quasi sempre che “gli altri” vogliono “imporci il loro stile di vita”. E questa, cari i miei campioni dell’autocoscienza, si chiama proiezione. Non so voi, ma io non ho mai incontrato, nella vita, una persona omosessuale, bisessuale, pansessuale, transessuale, asessuale, intersessuale o aromantica che andasse in giro a far proseliti. Ho invece assistito in prima persona a molti tentativi, spesso violenti, di cambiare l’orientamento delle persone LGBTQ+.
Ben venga, quindi, il termine tedesco. Amico mio che vai ai congressi sulla famiglia e che hai bisogno di respirare in un sacchetto se qualcuno propone di organizzare un’iniziativa contro il bullismo omofobico nella scuola di tuo figlio, tu non hai paura delle persone queer, tu sei un nemico delle persone queer. Il tuo atteggiamento è attivo, sei tu a rappresentare un pericolo reale per gli altri.
E se pensate che questa riflessione sia oziosa, vi fornisco un esempio pratico di come nascondersi dietro alla “paura” degli orientamenti sessuali e delle identità di genere altrui possa avere delle conseguenze anche in caso di atti violenti. E non nel sultanato del Brunei o in una qualche oscura teocrazia, ma in quelle che si presentano come moderne democrazie occidentali, come l’Australia, la Nuova Zelanda e gli Stati Uniti d’America. Sto parlando del gay-trans panic.
Gay-trans panic: quando uccidere una persona lgbt+ è meno grave
Il gay-trans panic è un’attenuante ancora usata e accettata nei processi per omicidio nei paesi sopra citati, il cui scopo è far comminare una pena ridotta a un imputato che sia già stato riconosciuto colpevole (o che lo sarà al di là di ogni ragionevole dubbio). Si chiede, in sostanza, di derubricare il livello del reato da quello che nella common law si chiama normalmente “omicidio di primo grado” al meno grave “manslaughter” (quello che da noi si potrebbe chiamare “omicidio colposo”). In questo caso, la difesa sosterrà che l’omicida abbia ucciso la vittima perché quest’ultima, omosessuale o transessuale, gli aveva fatto delle avance non gradite (non necessariamente violente: basta anche l’aver dichiarato un interesse di tipo sessuale), provocando appunto uno stato di panico tale da far perdere all’imputato il controllo delle proprie azioni. Perché l’imputato è un delicato fiorellino che, alla sola idea che la sua immacolata eterosessualità venga messa in discussione, ti infila in gola il manico di un banjo (non è una battuta, è successo davvero in Nuova Zelanda). Questo tipo di difesa, se accettata, può fare la differenza fra una condanna all’ergastolo e una pena inferiore ai dieci anni di carcere, a seconda della nazione o dello stato.
In Australia l’utilizzo del gay-trans panic come difesa nei casi di omicidio è stato vietato da tutti i territori e le giurisdizioni fra la metà degli anni 2000 e il 2017, con la sola eccezione della giurisdizione del South Australia, che ha dichiarato di volerla bandire nel 2020. La Nuova Zelanda ha portato in vigore lo stesso divieto nel 2009. A oggi, negli USA, solo tre stati (California, Illinois e Rhode Island.) hanno ufficialmente dichiarato inaccettabile l’attenuante del gay-trans panic.
IDAHOBIT: discriminazione anti LGBTQ+ in casa nostra
Ma torniamo a noi. A noi che non viviamo in South Australia o in Alabama, ma neppure in Cecenia o nel Brunei: che aspetto ha la Homo-Bi-Trans-Feindlichkeit nelle nostre vite? Ne ha molti e fanno ancora paura, in Germania come in Italia. Ci sono le manifestazioni più violente, quelle che (quasi) tutti trovano la forza di condannare, come le aggressioni per strada, sui mezzi o nei luoghi pubblici o addirittura nelle case private (come è avvenuto a Verona). Ci sono i politici che strappano una risata crassa e facile ai propri elettori facendo battute infelici. Ma la “Feindlichkeit” ai danni delle persone LGBTQ+ ha anche altri aspetti, più istituzionali, più “presentabili”. Ha l’aspetto di grandi congressi patrocinati dalle istituzioni, nei quali prendono la parola personaggi che invocano la galera, la morte o la “riconversione” per le persone non eterosessuali. Ha l’aspetto di chi cerca di mettere in pericolo la sicurezza e la serenità delle famiglie arcobaleno e dei loro bambini. Ha l’aspetto di chi ostacola una corretta educazione alla convivenza fra orientamenti sessuali e identità di genere diverse, invocando la pericolosissima ideologia gender e difendendo il sacrosanto diritto dei propri figli a bullare quelli altrui. Ha l’aspetto di chi dice di battersi per i diritti delle donne, ma esclude le donne trans dalle proprie battaglie e rivendicazioni. Alla base di tutte queste manifestazioni di odio c’è sempre e solo un concetto, che riemerge nonostante i tentativi di renderlo accettabile, ragionevole o umano: il concetto è “tu sei diverso da me e, quindi, io non ritengo che tu abbia il diritto di esistere”. Questo è il riassunto di ogni discorso che inizi con la frase “io non sono omofobo/transfobico, ma…”. E vale anche per quelli che, nel medesimo discorso, ci ricordano di avere “molti amici gay”.
Se, dopo aver avuto la pazienza di leggere fino alla fine questa riflessione mattutina, vi state chiedendo come potete celebrare l’IDAHOBIT 2019 a Berlino, ecco un po’ di appuntamenti da non perdere.
Bandiere arcobaleno a Berlino: IDAHOBIT 2019
Nella giornata di oggi, diversi edifici pubblici celebrano l’IDAHOBIT esponendo bandiere arcobaleno. Fra gli altri: la Rathaus Lichtemberg e la Ellen-Key-Schule a Friedrichshain-Kreuzberg, che organizza anche diverse iniziative per gli studenti.
A partire dalle 15 a Neukölln e alle 17:40 a Schöneberg si terranno inoltre le iniziative “Protect Every Kiss! Stand Up!” con musica dal vivo e il lancio di centinaia di palloncini arcobaleno, parte della campagna “Kiss Kiss Berlin”.
A partire dalle 16:00, in Kaiser-Wilhelm Platz, si terrà una manifestazione organizzata dalla LSVD (Lesben- und Schwulenverband Berlin-Brandenburg) e dalla Bündnis gegen Homophobie. Fra i portavoce della manifestazione ci sono Angelika Schöttler, sindaco di Tempelhof-Schoeneberg, Margit Gottstein, Segretario di Stato di Berlino per la tutela dei consumatori e la lotta alla discriminazione, padre Michael Raddatz, sovrintendente della Chiesa Evangelica di Tempelhof-Schöneberg, Katrin Raczynski, presidente dell’Associazione Umanista di Berlino-Brandeburgo, l’attivista trans Jennifer Michelle Rath, l’imam Seyran Ateş, fondatrice del della moschea liberale Ibn Rushd-Goethe, e Frank Wolf, direttore regionale dell’unione dei sindacati del settore dei servizi di Berlino-Brandeburgo.
Alle 18:30, presso la casa comune delle ambasciate nordiche (Rauchstr. 1), si terrà una tavola rotonda dal titolo “Make LGBTQI safe again!”, organizzata dall’ambasciata svedese e dall’associazione delle forze di polizia LGBT. Si parlerà di come affrontare e prevenire la omo/transfobica. Parteciperanno Göran Stanton (polizia di Stoccolma), Kina Sjöström (assistente sociale), Marco Klingberg (Presidente dell’associazione di polizia LGBT del Brandeburgo) e Anne Grießbach (Commissario, referente LGBTI per la polizia di Berlino). Per partecipare, è possibile registrarsi qui: event.berlin@gov.se
Alle 19:30, presso l’Aquarium Südblock (Skalitzerstr. 6), sarà proiettato il film “Rafiki“, che affronta il tema di una storia d’amore lesbico in Kenya. Il film sarà proiettato in lingua inglese con sottotitoli in tedesco.
A partire dalle 20:00, sul Tegeler See, si rinnova un’iniziativa organizzata da SPD, FDP e Die Linke: una crociera queer che approderà sulla Greenwichpromenade alle 22:00. Nel corso del viaggio si terrà un dibattito sul tema del matrimonio egualitario.