di Alessandro Campaiola
Le luci lo attendono basse, discrete, come a rendere omaggio all’approccio che Dirk Nowitzki ha assunto nel corso di tutta la sua straordinaria carriera. Nessun giro d’onore, entra in punta di piedi, divorato da un’emozione che non sembrava subire neppure durante le prime apparizioni da rookie. Il carattere nord-europeo affiora in ogni aspetto del suo gioco, degli allenamenti, nella gestione della vita privata: professionale, discreto, elegante.
L’annuncio del suo ritiro dalla pallacanestro arriva soltanto a fine stagione non solo perché, al contrario dei suoi colleghi americani Bryant e Wade, non ami i saluti roboanti, i fuochi d’artificio, insomma, quello spettacolo made in USA che dall’altro lato dell’Oceano sono bravissimi a mettere in campo per ogni occasione sportiva e non. L’annuncio arriva solo a fine stagione anche e soprattutto perché il numero 41 dei Mavericks ha interrogato ogni singolo muscolo del proprio corpo fino all’ultima palla a due, chiedendosi di andare avanti ancora un altro anno.
Chi, però, ha goduto del suo talento nelle ultime ventuno stagioni, ha avuto chiaro, ancor prima di lui, che il momento non avrebbe subito ancora un rinvio. Il suo gioco ha risentito del tempo trascorso sui parquet più prestigiosi del mondo un po’ per tutta la stagione e l’epilogo, per quanto triste e indesiderato da qualunque fan del basket, tifoso o meno del tedesco, come dei Mavs, è apparso, via via che la stagione volgeva al termine, sempre più nitido.
Nowitzki ha annunciato il ritiro dopo aver messo a referto l’ennesima prestazione degna della leggenda che ha scritto a suo nome, nel corso di due decenni trascorsi alla corte della città texana di Dallas, segnando 30 punti davanti al suo pubblico contro i Phoenix Suns e superando anche Michael Jordan come il più anziano di sempre a esibirsi in un trentello.
Simbolo di fedeltà, parola ormai sconosciuta negli ambienti sportivi, ha giurato amore eterno alla maglia dei Mavericks, con i quali ha pianto, gioito, ingoiato bocconi amari ed esultato. Ha esultato nel 2007, quando si è fregiato del titolo di Most Valuable Player della stagione regolare, e ha esultato ancor più nel 2011, quando ha vinto il titolo NBA in finale contro il giocatore più forte dell’intera Lega, quel LeBron James che avrebbe dominato il gioco per tutte le stagioni da lì in avanti. Una crescita umana e professionale, quella di Dirk, sempre costante, anche negli ultimi anni, quando, non più giovane, si è affermato come simbolo per le nuove leve, per i compagni e pure per gli avversari, perché i grandissimi il rispetto se lo guadagnano ovunque.
Nowitzki sarà, da ora in avanti, il punto di riferimento più alto per chiunque vestirà la canotta di Dallas guardando al cielo dell’American Airlines Center, dove la sua n.41 svetterà illuminata tra le leggende della franchigia. Ancor più sarà dura imitarne l’eredità lasciata alla nazionale di basket della Germania, con la quale ha raggiunto un bronzo mondiale e un argento europeo.
È stato il tedesco più forte di tutti i tempi, forse addirittura il giocatore del Vecchio Continente più glorioso. Dirk ha dedicato la sua vita alla pallacanestro, affrontato circa tre generazioni di giocatori diverse, facendosi apprezzare prima da quelli che ha sempre riconosciuto come i suoi idoli, poi finendo per sostituirsi a essi.
Ha inventato quel tiro che ha esibito di fronte ai tifosi di tutto il mondo e col quale ha chiuso la sua irripetibile carriera nella notte dell’addio a San Antonio.
Il fenomeno di Wurzburg ha iniziato nella Lega in cui un europeo era considerato fisicamente inadeguato e saluta in una nuova NBA in cui giocatori come il suo compagno di squadra Doncic, o i giovani Jokic e Porzingis, sono simboli delle proprie squadre, così come il nostro Danilo Gallinari a Los Angeles, che ha sempre dichiarato di provare a seguirne le tracce.
Come soltanto le leggende sanno fare, Dirk Nowitzki ha cambiato le regole del gioco, ne ha riscritto i dettami, ha rivoluzionato il ruolo dell’ala grande che ha occupato per oltre vent’anni. Con il suo ritiro dai campi, assieme a quello di Wade, di Ginobili, Duncan, la NBA mostra definitivamente un nuovo scenario, lascia dietro di sé la storia degli anni 2000 e apre alle nuove generazioni che però, com’è stato per Dirk e gli altri guardando a Jordan, Magic, Bird, penseranno al tedesco n.41 di Dallas come esempio da raggiungere.