“The Last Image”: una mostra fotografica sulla morte all’Amerika Haus di Berlino
di Lucia Conti
La morte e la fotografia, un binomio indissolubile da quando l’uomo ha acquisito la facoltà di fissare per sempre in un’immagine il più grande dei misteri umani. Questo è il tema di “Das Letze Bild/The Last Image“, mostra presentata l’8 dicembre alla C/O Berlin Foundation-Amerika Haus di Berlino (Hardenbergstraße 22–24, 10623) e disponibile fino al 3 marzo 2019.
Negli oltre 400 scatti in allestimento, la morte è indagata da ogni punto di vista, con diversi scopi, e da diversi fotografi. Si spazia dalle foto post-mortem, che in altri tempi venivano scattate per fissare ritualmente un ricordo indelebile del defunto, alle foto reportagistiche o anatomiche, che spogliano l’evento di ogni sacralità e consegnano alla storia immagini dal mero valore documentale.
Sono presenti scatti molto crudi, come quelli della decapitazione dello stupratore e assassino Albert Fournier, giustiziato a Tours nel 1920, o come le immagini di incidenti, sparatorie o eventi drammatici accaduti negli Stati Uniti e più o meno noti, dall’assassinio Kennedy al linciaggio dei quattordicenni afro-americani Charlie Lang, Ernest Green ed Emmett Till.
Sono inoltre disponibili i contributi di Gerhard Richter sull’Olocausto, le foto d’archivio che documentano il tragico epilogo della banda Baader-Meinhof e gli scatti più terribili realizzati dai fotografi nelle zone di guerra, provocatoriamente accostate a immagini di moda nei disturbanti collage di Thomas Hirschhorn. In questi casi la morte emerge come un fatto compiuto e archiviato, in nome della storia e dell’informazione.
Ci sono poi le foto degli artisti, che invece descrivono la morte in sé, ciascuno a suo modo, utilizzando un approccio filosofico ed estetico. Colpiscono le foto di Andy Warhol che ritraggono, sul suo letto d’ospedale e nella bara, la celebre star della Factory Candy Darling. Colpita da un linfoma, secondo alcuni a causa delle terapie ormonali che stava seguendo per completare la sua transizione e che al tempo non erano prive di rischi, Candy Darling morì ad appena 29 anni.
Nella foto di Warhol guarda dritto in camera, sensualmente distesa e circondata da fiori che sono il naturale complemento del suo essere morbida e bella, anche in punto di morte. Lo scatto cattura con tragica potenza il suo desiderio, perfettamente realizzato, di essere perfetta nonostante tutto.
Ci sono poi le foto di Andres Serrano, che trasforma immagini di obitorio in trasfigurazioni eterne proprie dell’arte sacra, mischiando il dolore all’assoluto e al mistero.
L’artista annota diligentemente le ragioni del decesso dei soggetti ritratti, facendo scelte a volte controverse (“Rat poison suicide”, “Motorcycle accident”, “Child abuse”) e i corpi si presentano avvolti da lenzuoli e definiti dalle luci e dalle ombre con ieratica intensità. Sembra davvero, a tratti, di vedere il Cristo Velato di Sanmartino o una deposizione di Holbein.
Non ci sono veli, invece, nelle foto di Nan Golding, che illustra minuziosamente le lesioni causate dall’Aids su soggetti che appaiono al tempo stesso morenti e incredibilmente audaci nel mostrarsi alla camera, in totale sintonia con la fotografa.
Delicatissimo infine l’approccio concettuale di Duane Michals, che con il suo “Grandpa goes to Heaven” mostra una sequenza fantastica in cui un nonno mette le ali e vola dalla finestra sotto lo sguardo del nipote, mentre il video di Spring Hurlbut, in cui le ceneri di un’urna vengono liberate su uno sfondo nero, esprime la dissoluzione del corpo fisico in modo astratto, ma fortemente lirico.
Al piano superiore è possibile visitare, con lo stesso biglietto di ingresso, anche la mostra del fotografo giapponese Nobuyoshi Araki.
Gli scatti dell’artista rappresentano in modo chiaro la sua visione della fotografia e della vita, che si presentano come indissolubilmente connesse (“Per me scattare è come respirare”). Nella sezione Flower-Doll immagini di bambole e pupazzi si intrecciano a fiori di ogni tipo, con uno spiccato cromatismo e un gusto pop che mischia elementi della tradizione giapponese, pulsioni erotiche e suggestioni occidentali. Questo ibridismo è presente anche in una serie di foto sulla Tokyo degli anni settanta, in cui l’intrusione del modello americano si salda visivamente all’estetica di un popolo rimasto parzialmente ancorato alle sue radici e ai suoi feticismi.
Di sicuro effetto è anche le serie di polaroid sul cielo (“ogni mattina mi sveglio e celebro il fatto di essere vivo fotografando il cielo”) e i celebri scatti di donne legate e nude, che mostrano il loro corpo in contesti domestici e si somigliano tutte, diventando simboli senza volto di un erotismo al tempo stesso esplicito e segreto.
Ma è nei progetti fotografici dedicati alla moglie Yoko che forse Araki raggiunge vette assolute di intensità e poesia.
Nelle sequenze “Sentimental journey” e “Winter journey“, che raccontano rispettivamente il viaggio di nozze della coppia e la malattia e la morte della compagna di una vita, Araki mette a nudo un amore totalizzante e una sofferenza che con gelo siberiano cristallizza tutto: i paesaggi, la vita, le luci, le ombre e anche la memoria.
È davvero un viaggio invernale quello che si affronta calandosi nel bianco e nero con cui l’artista ha scelto di raccontare i suoi sentimenti, mentre la serie di polaroid di momenti felici strappate a metà, intitolata “The days we were happy“, mostra brutalmente il modo in cui il dolore interrompe il flusso dei ricordi.
Attraversando i decenni e la storia, raccontando la fine serena, disperata, casuale o voluta di centinaia di migliaia di individui e mostrando il rapporto che tutto questo ha con la fotografia, questa mostra presenta lo sforzo di un’umanità che ha cercato in ogni modo di dare un senso al più oscuro degli enigmi. Fallendo magnificamente.