L’insostenibile leggerezza dell’essere ITALIANI

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di Johanna Combi

Sono cresciuta in Italia: espresso a colazione, pasta pranzo e cena, pizza del sabato sera, messa della domenica mattina. Mi mancano le vacanze al mare ad agosto, ma le ferie all’oratorio, quelle le ho vissute, inclusi i balli di gruppo.
Si potrebbero chiamare cliché, eppure sono effettivamente quello che ho sperimentato in 25 anni di vita.

Oggi ne ho 26, quasi 27. Mi sono trasferita un anno e tre mesi fa a Berlino. La motivazione che mi ha portato a prendere questa decisione la potete immaginare, quindi eviterò di raccontare l’ennesima storia strappalacrime di una laureata che non vede futuro in patria e si trasferisce all’estero a fare la cameriera. La storia che vi voglio raccontare non è questa. La mia storia, è una storia d’amore.
Un amore sofferto, un amore che, come quello della maggior parte di noi, è a metà tra amore e odio, un amore che non si può vivere del tutto, perché non corrisposto, un amore che purtroppo aveva una data di scadenza: l’amore per l’Italia.

Tutti noi italiani siamo in qualche modo legati alla nostra terra da una sorta di incantesimo, che ci porta a provare un sentimento che non è chiaro. Nonostante la delusione delle aspettative e della mancanza di prospettiva, siamo comunque contenti e orgogliosi della nostra provenienza.
L’italianità è un pregio. Nonostante tutto. Consci o non consci, questo sentimento ci appartiene. Ci accompagna durante i nostri viaggi a Londra, “che a questi bisognerebbe insegnare a fare una lasagna! Altro che fish and chips”, durante le conversazioni con persone provenienti da un altro Paese, “che ne volete sapere voi della storia, che noi scaviamo due metri sotto terra e troviamo LA storia”, e persino con i nostri connazionali, “che se i politici curassero un po’ più Pompei e un po’ meno le loro tasche, l’Italia…”.

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Non importa quanto siamo stati delusi dalla nostra terra, in fondo siamo felici di essere nati in questo angolo di mondo, e non in uno differente.
E io come la maggior parte degli italiani, mi aggrego a questo sentimento ambivalente.
Da quando sono in Germania, ho passato notti a sognare di essere ancora a casa mia. Sono stata tentata di prendere un volo di sola andata per tornare indietro. Ho pianto al telefono con mia madre e mio padre. Sono tornata per un weekend e poi sono dovuta ripartire.
Parlo in tedesco e in inglese, qui a Berlino, ma l’unica lingua che mi fa sentire a casa, è l’italiano.

Quando ho preso il volo Ryanair, il 4 luglio del 2017, avevo un pacchetto di biscotti della Mulino Bianco in valigia, gli Abbracci. Avevo in mente di rimanere a Berlino solo 3 anni, semmai fossi riuscita a starci, tre anni, e non un giorno di più. Il tempo di fare la Ausbildung come maestra d’asilo e poi di corsa tornare a Milano e lavorare nella Scuola tedesca.
Mi dicevo che sarei tornata in Italia. Avevo ancora da fare tante cose: lanciare il riso urlando “Viva gli sposi!”, girare in macchina a ferragosto, guardare “Porta a Porta”, commentare i politici bevendo un crodino al bar sotto casa, mangiare il gelato, quello vero, lasciare la chiave di casa sotto il tappetino, andare all’Esselunga e comprare le focaccine, discutere di quale sia la pasta migliore (la De Cecco o la Rummo?), farmi chiamare da mia madre dal balcone di casa e farmi passare la pattumiera da buttare, andare a far colazione al sabato mattina con cappuccio e brioche e poi al mercato a far la spesa, guardare i vecchi giocare a carte al bar, guardare le sciure fare le sciure e poi commentarle, parlare ad alta voce al ristorante, parlar male del vicino di casa e abbassare la voce, prima che ti senta.

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Poi sono arrivata a Berlino.

In Germania, se il bus per due giorni di fila è in ritardo di 30 secondi, si manda una lettera di reclamo alla compagnia di mezzi pubblici locali. E ricevi anche una lettera di scuse. A Milano, se il mio treno per Monza aveva un ritardo di “soli” 20 minuti lanciavo coriandoli. Ci mancava poco che non accendessi un cero quando arrivavo sana e salva a destinazione, se era un treno che partiva di sera.
In Germania non è il cittadino a cercare lavoro è il lavoro a cercare il cittadino, ho ricevuto talmente tante proposte che non posso nemmeno contarle. in Italia la maggior parte dei miei coetanei, se riceve una proposta di stage da 400 euro al mese per 6 mesi, lancia coriandoli.
In Germania una signora di 55 anni, che per tutta la vita ha fatto cuoca e si è stancata del suo lavoro, ha la possibilità di fare una Ausbildung e iniziare a lavorare come maestra d’asilo. in Italia una signora di 55 anni che ha un lavoro, non può nemmeno permettersi di pensare di lamentarsi, perché deve solo essere grata che non la lascino a casa.
Esempi che chiariscono le differenze tra due Stati entrambi membri dell’Unione Europea.
Quando si vive in Italia si pensa che sia normale, certo, ci si lamenta, ma non si pensa effettivamente che un cambiamento sia possibile o forse desiderabile. Come nella caverna platonica ci limitiamo a guardare le ombre legati alle nostre catene e alla fine ci piace così.
La lamentela è d’altronde lo sport preferito dell’italiano medio, subito dopo lo zapping.

E il mio amore-odio per il Bel Paese?

Le strade dissestate, i cafoni che urlano per strada, i cinepanettoni, i modi rozzi degli uomini che ti fissano fischiandoti, il clacson sulla statale, il lavoro a tempo determinato, i treni in ritardo e i posti a sedere di tela non lavati dalla fondazione di Trenitalia, la doppia morale e il pettegolezzo, la politica e il giro al centro commerciale, il tutto deve cambiare perché nulla cambi, sicuro come il famoso “arrivo con 5 minuti di ritardo”, che puntualmente sono 20, in Italia.
Ma anche “gli anni in motorino sempre in due”, la pizza del sabato sera, la pasta a pranzo e cena, il clacson dello “scendi sono arrivato”, le finte litigate del “chi paga la cena?”, la salamella dopo una serata, il bagno di mezzanotte e la pasta olio aglio e peperoncino, gli uomini che ti aprono la porta, la vineria con l’aperitivo, le scenate di gelosia e dopo 30 minuti si finisce per dirsi che uno senza l’altro non può vivere, il trenino a capodanno e la litigata con i parenti al cenone di Natale, che alla fine i parenti non li si può scegliere, ma che altri parenti avrei voluto, se non questi parenti italiani che ho?

1 COMMENT

  1. “In Germania non è il cittadino a cercare lavoro è il lavoro a cercare il cittadino”. Mah! Guardi signora Combi che le cose non stanno proprio cosi´. Anche per quanto concerne lo strumento di (ri)qualificazione professionale denominato ‘Ausbildung’ non e` che si trovi sempre il lavoro in maniera cosi´ automatica. Dipingere la Germania come una sorta di El Dorado europeo non mi sembra tanto un’operazione meritoria…

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