Sedici storie di lavoro nero in gastronomia. Ginevra: “Lo stipendio lordo non interessa a nessuno”
Jacopo Marghinotti si è già occupato del tema del lavoro nero per “Il Mitte” e da tempo si impegna per promuovere tra gli italiani in Germania una cultura della legalità e dell’autotutela. Con questa rubrica vi presentiamo una serie di storie vere, raccolte tra i nostri concittadini residenti a Berlino. Questo primo capitolo parla della storia di Ginevra.
Ginevra è nata in Germania, da padre tedesco e madre italiana. In Germania dunque è andata a scuola e ha i suoi ricordi d’infanzia. È tuttavia molto legata anche alla sua terra d’origine e ne ha fatto il settore di ricerca dei suoi studi, che continua a condurre mentre lavora come cameriera. È tuttora impegnata nell’organizzazione di eventi culturali, scrive articoli, partecipa a conferenze relative a temi che ha studiato e che la interessano. Lavorare come cameriera non è la sua aspirazione, si tratta piuttosto della sua fonte di reddito.
Quando la contatto per parlarle del mio progetto (un’inchiesta sul lavoro nero, ndr), si dimostra subito partecipe e questo nonostante io tenda a parlare di intervista sulle condizioni di lavoro in gastronomia, più che di lavoro nero, in modo da condizionare il meno possibile le risposte.
Con lei mi si pone un problema nuovo e cioè il fatto di non poter ripercorrere tutte le esperienze lavorative fino a quella in corso per mancanza di tempo: Ginevra infatti lavora in gastronomia a Berlino da più di quindici dei suoi quarant’anni. Decido di chiederle un resoconto dettagliato dell’ultima esperienza e successivamente di fare una panoramica sulle altre.
Nel ristorante dove lavora, Ginevra ha cominciato circa un anno fa. Le chiedo subito se abbia firmato un contratto scritto e risponde di no: riferisce di aver chiesto al datore di lavoro, un italiano originario dalla sua stessa regione, di stipulare un contratto di lavoro scritto. Il datore di lavoro le è apparso triste e come risposta le ha chiesto se non si fidasse di lui. È poi passato a rinviare il momento della consegna finché le richieste da parte di Ginevra non sono cessate. Nonostante non abbia stipulato il contratto per iscritto, non ha ricevuto il Nachweis, ovvero quel documento riassuntivo che il datore deve dare al dipendente in assenza di contratto scritto.
Ginevra parla di quest’esperienza senza alcuna sudditanza nei confronti del titolare. Lamenta il trattamento molto peggiore riservato agli altri colleghi, anche per rilevare una sua posizione di forza nel locale, e in generale nella città, rispetto al suo stesso titolare. Conoscendo Ginevra ho veramente l’impressione che potrebbe trovare un lavoro analogo in breve tempo, mentre lo stesso non vale per il suo capo: Ginevra infatti, completamente autonoma dal punto di vista professionale e madrelingua tedesca, nonché puntuale e affidabile sul lavoro, copre, quando la intervisto, ben cinque giorni su sette. Se decidesse di andarsene sarebbe un problema per il suo capo e non potrebbe essere sostituita con troppa rapidità.
Diversamente da quanto accadde a me, che non conoscevo né il tedesco né il mestiere e che vidi il mio colloquio risolversi in un laconico “Torna lunedì”, senza aver saputo nulla sulle condizioni di lavoro, Ginevra, pur non avendo ottenuto un contratto, ha deciso quali fossero le condizioni che preferiva: Ginevra è di quelli che possono contrattare.
Per i cinque turni a settimana ha voluto un netto di 1200 €. Il tacito accordo è che in cambio di questa cifra non solo non avrebbe ottenuto un contratto scritto, ma anche che al titolare fosse completamente demandata la “gestione” dell’importo in busta paga, che nel suo caso si aggira intorno agli 800€. Si tratta, come vedremo, di un meccanismo di delega piuttosto comune, usato spesso anche con chi non è nella posizione di proporre il proprio stipendio.
Ginevra afferma espressamente che il “brutto”, il nostro stipendio lordo, non le interessa. E aggiunge che a nessuno in gastronomia interessa il brutto. “L’unica cosa che importa sono le mance e quanti soldi uno riceve in mano”.
Recentemente ha discusso di questo col titolare, lui vorrebbe aumentare l’importo nella sua busta paga e progetta per l’inizio dell’anno prossimo di far coincidere stipendio e busta paga. Cosa si intenda con questa coincidenza completa non è però semplice da comprendere, perché queste “discussioni contrattuali” avvengono disordinatamente. Molto probabilmente si tratta di rivedere al ribasso il salario netto che Ginevra percepirà, senza però diminuire le ore di lavoro. Quest’intenzione ha trovato una reazione decisamente ostile da parte di Ginevra, che ha già deciso di non volerla accettare. Come priorità lei ha quindi ribadito che il suo interesse è percepire 1200 € netti per cinque giorni di lavoro. Del resto, si occupi pure il titolare.
Non c’è stato modo di approfondire quanto realmente percepisca all’ora, perché le sue buste paga non corrispondono alle ore di lavoro e perché lei non tiene un registro delle ore. Il motivo del suo accordo informale col titolare è proprio quello di garantirsi una certa copertura per svolgere le sue altre attività. Certo è che rinuncia alle ferie, a una parte importante dei suoi contributi e al pagamento dello stipendio in caso di malattia (per tacere di un eventuale periodo di riposo per maternità).
A questo punto le chiedo se le sue esperienze di lavoro in gastronomia, con datori di lavoro italiani, siano state simili, e Ginevra conferma la completa opacità dei rapporti di lavoro, dovuta all’esclusiva oralità che li contraddistingue. Nella maggior parte dei casi l’unico documento scritto è una busta paga puntualmente inferiore alle ore lavorate. Lo stesso vale per le ferie e per il pagamento dello stipendio in caso di malattia. “Sono cose risapute da chi lavora in gastronomia”. In quindici anni non ha mai trovato un lavoro in regola.
Le chiedo allora delle differenze tra italiani e tedeschi. Specifico che per tedesco intendo un titolare che usi la lingua tedesca per comunicare con i dipendenti, italiani gli altri.
Premette che le sue esperienze con datori di lavoro tedeschi sono soprattutto limitate a sporadici catering che sono pagati in maniera del tutto ufficiale. Quindi, se pure non esclude una componente di nero nei ristoranti tedeschi, è per lei fuori di dubbio che i tedeschi mettano le condizioni di lavoro per iscritto. Questo ancora non garantisce la coincidenza degli accordi scritti con quelli effettivi. Il punto è che gli accordi scritti rappresentano la soglia sotto la quale non si può andare. Una soglia che nella gastronomia italiana dipende solo dalla forza contrattuale delle due parti.
Provo a introdurre l’argomento civico, azzardando un riferimento al noto linguista americano Noam Chomsky (è il campo di Ginevra), che individua nella disposizione dei cittadini a pagare le tasse un metro per valutare o stato di salute di un sistema democratico. Lei è d’accordo. Come non esserlo. Ma trasportare questa constatazione nella propria dimensione soggettiva stride, se il lavoro che si svolge non viene percepito come qualcosa che davvero ci appartenga.
A questo proposito Ginevra precisa: “Servire ai tavoli, che non mi appassiona, non mi porta neppure a battermi o spendere tempo supplementare per parlare del tema. Per questo l’unico denaro che mi interessa è quello immediato, in contanti, ed è per questo che non mi batto per le ferie o il pagamento dello stipendio in malattia”. E così ritorniamo alla sua tesi di partenza: il brutto non interessa a nessuno.
Il quadro è chiaro: secondo quello che dice Ginevra vivere la ristorazione come fonte di reddito significa sfruttarla solo nel “qui e ora”: contributi pensionistici, assicurativi, la disoccupazione, la cassa infortuni e a maggior ragione le tasse sul reddito, e tutto quello che esula dall’immediatezza (ferie e malattia in primis), non viene considerato.
È una perdita di tempo, ferie comprese. Ginevra dice “La gastronomia non è il mio lavoro. Voglio fare altro”. E mentre cerca di riuscire in quello che definisce “altro”, per quindici anni non ha preso ferie, malattia e migliaia di euro di contributi pensionistici.
Quello che non viene lasciato al caso sono, per la stessa ragione, le mance. Queste, molto più degli attriti sulle tutele minime, causano licenziamenti e litigi sul posto di lavoro, appunto perché si tratta di denaro contante da dividersi ogni sera. Le mance sono la vera cartina di tornasole dei rapporti di forza, in un ristorante.
Alla domanda “dove hai imparato quello che sai sul lavoro in Germania?” risponde che si informa soprattutto attraverso canali tedeschi e conoscendo le Stichwörter, le parole chiave, è molto avvantaggiata rispetto ai suoi colleghi, per la maggior parte italiani.
Ha letto di recente alcuni articoli sul lavoro nero apparsi su Il Mitte, ha letto la guida del ComItEs al sistema sanitario e afferma con decisione che non ha mai sentito parlare di alcun movimento o partito politico italiano attivi a Berlino. Si stupisce anzi che ne esistano. Forse per il fatto che il lavoro di cameriera è più una necessità che una scelta, non conosce neppure il sindacato della ristorazione NGG.
Ginevra mi lascia. Riguardo i miei appunti: il brutto non interessa a nessuno. L’ho sottolineato più volte. Prima di risistemare le sue parole aggiungo, tra parentesi, “All’inizio…”.
E questo “inizio” può durare quindici anni.
Ginevra insegna.
Se vi piace il progetto di Riccardo, potete leggere qui anche i primi due capitoli della sua inchiesta sul lavoro nero:
1) Sedici storie di lavoro nero in gastronomia: Andrea, la famiglia cambia tutto e altre buone notizie
2) “Nella vecchia Trattoria”: ovvero quell’antica filastrocca sul lavoro nero a Berlino, che nessuno canta mai fino alla fine