Essere transgender a Cuba: intervista a Berlino con Tropikana, attivista per i diritti LGBT

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Tropikana, attivista transgender a Cuba.

Com’è essere transgender a Cuba e in generale esponenti della comunità queer? Siamo soliti pensare all’attivismo LGBT come una cosa del mondo occidentale, poiché, ed è un dato non contestabile, in numerose parti del mondo essere omosessuali, transessuali o queer è un reato che può essere pagato in tanti modi, dall’arresto preventivo fino all’incarcerazione prolungata, dalle percosse come forme di rieducazione alla pena di morte, come dimostra il report di ILGA.

Anche in occidente, comunque, esistono ancora sacche più o meno preoccupanti di discriminazione, esplicita e latente, e talvolta anche di violenza. Si pensi, per esempio, alle terapie riparative, che avrebbero la pretesa di ri-convertire le persone LGBT ad una presupposta normalità, ossia di aiutarle a superare presunti e non meglio definiti sconvolgimenti psicologici o psichiatrici, che sarebbero alla base di questa “degenerazione”. Questa posizione, scientificamente infondata, è stata spesso diffusa dal suo principale teorico, ormai defunto, lo psicologo statunitense Joseph Nicolosi.

Eppure l’omosessualità è stata eliminata dal  manuale diagnostico e statistico delle malattie psichiatriche già 25 anni fa, ma il percorso di comprensione e accettazione sembra richiedere molto più tempo. La questione dei diritti delle persone LGBT rappresenta infatti un terreno su cui si misura il grado di emancipazione sociale e culturale di una società, ma ha tempi, forme e protagonisti differenti in base al contesto e al luogo in cui si trova.

In questo articolo, presento un’intervista che mi ha concesso Tropikana, l’ospite della conferenza sull’attivismo LGBT transnazionale organizzato dal PD Berlino e Brandeburgo, dall’AG Migration und Vielfalt della SPD di Berlino e con il supporto del network LGBT del Partito Socialista Europeo (PSE), lo scorso 19 luglio 2018. L’intervista si è svolta in spagnolo, con un interprete italiano-spagnolo

(di Federico Quadrelli)

Tropikana, buonasera. Sei un’attivista transgender per i diritti umani nel suo paese. Può raccontarci come è la vita per una persona transessuale o transgender a Cuba?

Dobbiamo fare una distinzione temporale. Oggi, la vita di una persona trans, transgender oppure omosessuale è abbastanza tranquilla. Le persone LGBT possono andare a scuola, possono lavorare, possono ricoprire ruoli di responsabilità. In caso qualcuno discrimini, offenda o eserciti violenza, la legge ci protegge.

Tu citi esempi che dovrebbero essere scontati, per esempio andare a scuola o poter lavorare. Era diverso prima?

Assolutamente sì. Direi che la situazione è cambiata negli ultimi quindici anni. Prima essere omosessuali, trans o transgender era terribile. Le persone subivano violenze e discriminazioni di continuo. Ho sofferto molto, in passato. Ho subito numerosi atti di bullismo a scuola, violenze e offese, tanto che ho dovuto abbandonarla. Perché la mia vita era diventata impossibile, l’avevano resa impossibile.


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E non c’erano forme di protezione?

Se andavi alla polizia a denunciare ti arrestavano. Anche la polizia praticava violenza, discriminazione. La mia vita è stata un incubo. Quando ho deciso che volevo essere me stessa e mi sono travestita, per me è iniziato un percorso di lotta. Sono stata arrestata tante volte dalla polizia, perché ai loro occhi ero un uomo che si travestiva. Eri omosessuale? Lo pensavano? Potevano prenderti e portarti in centrale e metterti in cella per un po’. Se contestavi, ti picchiavano.

Come hai fatto per reagire? Che cosa, o chi, ti ha aiutato a superare questi momenti difficili?

Ad un certo punto ho deciso che non volevo più subire. Che ero stanca di essere offesa, derisa, umiliata, picchiata perché ero me stessa. Così capita che da vittima si diventi carnefice.

Ho avuto momenti terribili con la mia famiglia, ho dovuto lasciare la scuola, non potevo lavorare perché a una transessuale o a un travestito non davano lavoro, ho vissuto sulla strada e ho fatto la vita da strada. Mi sono prostituita, perché non potevo fare altro e sulla strada devi dimostrare di essere forte, di cavartela da sola, l’unico modo per evitare violenze, vessazioni e offese è dimostrarti più cattivo e determinato degli altri. Così sono diventata violenta io stessa, contro tutto e contro tutti. Ero arrabbiata, delusa, ce l’avevo col mondo. Con tutti. Se qualcuno mi aggrediva, rispondevo. A parole o con i fatti.

A un certo punto mi sono fatta una brutta fama, tutti mi evitavano, pensavano che fossi una cattiva persona, una persona da evitare. E allora stavo tranquilla, ma ero infelice. Però ero diventata anche un riferimento per molte persone LGBT che veniva offese, picchiate, incarcerate e che non erano in grado di reagire. Allora chiedevano aiuto a me. Così è iniziato tutto.

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Mariela Castro ad Amburgo, nel 2010. Northside, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons

Sei la vice coordinatrice di una rete LGBT a Cuba, puoi raccontarci come nasce l’idea, di cosa vi occupate?

Sono la vice-coordinatrice di un network cubano nazionale per persone transgender, omosessuali e non solo. Da noi partecipano anche le famiglie di queste persone, che vogliono essere attive e aiutare. Siamo una rete di oltre 4000 membri su tutta Cuba e ufficialmente aderiamo a CENESEX, il gruppo governativo fondato da Mariela Castro che ha per tema la promozione della salute sessuale e delle pari opportunità. Ci occupiamo di dare assistenza legale, psicologica ed emotiva alle persone LGBT, per aiutarle ad uscire dall’invisibilità sociale, dalla paura, dalla violenza.

E cosa puoi dirci su CENESEX?

CENESEX è un ente governativo che esiste da almeno 30 anni. La nostra cooperazione è iniziata quando due dottoresse del centro si sono interessate a noi, come comunità LGBT. Si parla di 17 anni fa. Sapevano che c’era una casa dove ci incontravamo in modo privato e sono entrate in contatto con noi. Ci hanno accolto nella loro struttura, si sono fatti partecipi, hanno dimostrato di voler ascoltare e capire. E da quel momento abbiamo iniziato a lavorare, come volontarie e volontari, sul territorio, per denunciare ogni forma di discriminazione e violenza a danno delle persone LGBT. Soprattutto nei confronti della polizia.

Oggi, se una persona LGBT subisce violenze o vessazioni in famiglia, a scuola, a lavoro, ovunque, può rivolgersi a noi. Noi promuoviamo la loro tutela, scriviamo un documento e quando questa persona va alla polizia a denunciare, la polizia non può evitare di intervenire e soprattutto non può praticare violenza.

La fondatrice del CENESEX si chiama Castro. Pensi che questo abbia influito?

Senza dubbio, il fatto che sia un’organizzazione governativa, fondata da una Castro, che si fa carico dei diritti delle persone LGBT, ha un peso. Ma non dobbiamo sottovalutare il lavoro intenso che viene svolto da noi, attiviste ed attivisti, ogni giorno e ad ogni livello, sul territorio. La nostra organizzazione è strutturata in modo capillare su tutto il territorio cubano: ogni macro-regione ha una struttura dirigenziale, a cascata poi sotto-strutture fino nei luoghi più remoti dell’isola. Siamo una rete presente e diciamo che abbiamo dato e diamo anche noi il nostro contributo.

La società cubana è cambiata molto, secondo te c’è stato un momento in cui hai visto questo cambiamento e hai capito che c’era qualcosa di nuovo?

Esistono ancora forme di discriminazione, certo. Ma abbiamo fatto tanti passi in avanti. Grazie all’intervento dall’alto, di CENESEX, che è una garanzia e una struttura di tutela molto forte, ma anche dal basso, con una sempre maggiore presa di coscienza del nostro potenziale e con sempre più volontà di tutelarci.

Ricordo, comunque, che la società cubana ha approcciato il tema LGBT in modo diverso all’indomani della messa in onda di una pellicola girata a Cuba, prodotta e realizzata in tutto e per tutto a Cuba, agli inizi degli anni Novanta, ma ambientata il decennio prima.
La pellicola trattava il tema LGBT e ricordo che all’epoca ero molto sorpresa per il fatto che nessuno avesse cercato di censurarla. Si chiamava “Fresa y Chocolate”, in italiano Cioccolata e Fragole. Uscì nelle sale cinematografiche ed ebbe un grande impatto sociale e culturale, secondo me. Da quel momento la questione fu sollevata e messa in risalto.

Un’ultima domanda. L’incontro di oggi si intitolava „Diversità a Cuba“. Che cosa significava e significa per te, oggi, la parola diversità?

Per me diversità significava qualche cosa di orribile. Ho subito violenze, percosse, arresti, violenze su violenze, da parte della mia famiglia, dei compagni di scuola, dalla società.

Ero così arrabbiata, ero diventata violenta anche io. Poi CENESEX mi ha salvata, mi ha dato un obiettivo e allora ho deciso di impegnarmi per aiutare chi era nella mia condizione, per fare in modo che ci fossero altre possibilità per le persone come me di vivere, imparare e uscire dalla strada. Poi, chi vuole prostituirsi perché vuole farlo, ha comunque la libertà di scegliere. Per me era un momento buio. Oggi per me la diversità è altro, è essere se stessi, senza paura e senza doversi nascondere. Per me diversità è libertà.