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Sedici storie di lavoro nero in gastronomia. Andrea: “La famiglia cambia tutto” e altre buone notizie

Jacopo Marghinotti si è già occupato del tema del lavoro nero per “Il Mitte” e da tempo si impegna per promuovere tra gli italiani in Germania una cultura della legalità e dell’autotutela. Con questa rubrica vi presentiamo una serie di storie vere, raccolte tra i nostri concittadini residenti a Berlino. Questo primo capitolo parla della storia di Andrea.

lavorare ristorante photoAndrea: “La famiglia cambia tutto” e altre buone notizie

Andrea è la prima persona che incontro e non ho dovuto cercarlo. Ha trovato lui me.
A luglio 2017 scrissi un articolo per Il Mitte, nel quale raccontavo la vicenda di una persona che si era lamentata su Facebook delle condizioni esasperanti nella ristorazione a Berlino e che diceva di trovarsi in una condizione di assoluta emergenza.
All’epoca mi sentivo pronto per aiutare questa persona direttamente, ma la nostra interazione era finita con me che lo accompagnavo a una prova di lavoro in un ristorante che, dal punto di vista delle tutele e della legalità, non offriva maggiori garanzie di quello da cui era stato cacciato.
Era stata una storia amara, che aveva spento molte delle illusioni che mi ero fatto sulla possibilità di “poter cambiare le cose”, come si dice spesso in maniera retorica.
Di questa storia e di questa delusione avevo parlato nell’articolo pubblicato da Il Mitte. Nell’articolo era anche contenuto un appello: ipotizzavo l’esistenza, qui a Berlino, di un vero e proprio sistema di lavoro nero particolarmente grave per la comunità italiana e invitavo i lettori a smentirmi, raccontandomi di un locale nel quale i diritti minimi dei lavoratori venissero rispettati. A questo punto è entrato in gioco Andrea, l’unico dei numerosi lettori a rispondere a quell’appello.
È con lui che inizia la mia nuova serie di interviste.

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Lo incontro alla fermata della metro mentre spinge il passeggino con dentro il più piccolo dei suoi figli. Prima di cominciare l’intervista lo accompagno al Jobcenter, dove consegna una lettera di licenziamento. Noto che è molto a suo agio, è di buon umore e cortese con tutti e il suo bimbo è silenzioso, attento e pacifico. Andrea, che sembra aver imparato alcuni dei più importanti segreti del successo negli uffici tedeschi (andare con le scartoffie bene in ordine, prendere appunti, chiedere finché non si è capito) emana un’aura positiva. Anche al Jobcenter. Anche sotto la grigia pioggerella mattutina.

Per l’intervista ci spostiamo in un caffè poco distante e comincia a raccontarmi la sua storia: appena arrivato a Berlino con la sua famiglia, aveva lavorato per circa un mese da due amici conosciuti in Italia, che da poco avevano un locale nella capitale tedesca.
I due titolari, che lavoravano incessantemente nella speranza di avviare l’attività, avevano un totale di circa tre dipendenti. Il rapporto di amicizia con uno dei due, si era però logorato molto presto.
Queste le sue condizioni di lavoro: non aveva un contratto, nonostante l’avesse chiesto, e neppure un Nachweis. Sono l’unico italiano a Berlino a conoscere il Nachweis, a quanto pare, ma è talmente importante che non posso esimermi dal chiederlo a tutti quelli che incontro. Non aveva ferie e supponeva che in caso di malattia non sarebbe stato pagato.
L’accordo iniziale prevedeva inoltre che potesse andare via in tempo per prendere l’ultima metro, ma non era stato rispettato dal titolare e questo aveva creato i primi attriti. Una divisione poco equa delle mance e condizioni di pulizia insufficienti in cucina l’avevano infine convinto a licenziarsi e lo aveva fatto senza preavviso. Nonostante le frizioni di cui sopra definirei il loro rapporto di lavoro come un nero per amicizia.

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Andrea descrive la trasformazione di chi diventa capo e mi espone l’interessante teoria secondo la quale, affidando un po’ di potere ad una persona squisita, questa finisca per peggiorare irrimediabilmente. “Diventare padroni fa male”, dice. “Noi poveri” aggiunge “diventiamo stronzi, i ricchi invece no!”. Ed è con questa considerazione che arriviamo a discutere del locale del quale mi voleva parlare, quello che invece rispetta le regole.

Ci lavora da tre anni e l’ha conosciuto grazie al consiglio di un amico. Durante ogni turno lavorano due cuochi e un lavapiatti, a cui si aggiungono un barista e un cameriere. Nonostante un cambiamento non indolore nella direzione è ancora un ottimo locale dove mangiare, dice. Io stesso, pur senza esserci mai stato, lo conoscevo per le recensioni positive di amici e conoscenti.
Il proprietario è un facoltoso tedesco, un po’ misantropo. L’impressione che mi costruisco è che sia amante dell’Italia e del buon cibo e che non intenda lesinare né sulle materie prime né su altro, anche per una questione di stile, come chi lascia la mancia solo per non contare gli spiccioli. Andrea con lui parla poco e non lo vede spesso.

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Il contratto di lavoro scritto l’ha chiesto Andrea. L’ha preteso. “Il contratto non era scontato”, mi racconta. L’ha chiesto e ottenuto. Perché non accetterà mai rapporti di lavoro in nero, mai contratti orali, mai paghe sotto la media. Per Andrea Berlino è una città piena di opportunità e si dice disposto a raccogliere i Pfand, i vuoti (lo dice convinto, come avesse già i bustoni di Aldi in mano), piuttosto che infilarsi in quel sistema.
“Se accetti quelle condizioni, è una tua colpa”, afferma. “Io vengo dal sud e so bene cosa siano condizioni di lavoro di merda. Se siamo venuti in Germania è anche perché cose del genere non le potevamo sopportare ed evidentemente ce le stiamo portando dietro” e poi aggiunge: “Qui non hai scuse per piegarti”.

Gli chiedo delle difficoltà che i nuovi arrivati incontrano e se non giustifichino in qualche modo il compromesso, ma la sua forza di volontà travalica le mie obiezioni: “Il tedesco che serve per lavorare in ristorazione è poca roba. Io poi, da lavapiatti, figuriamoci quanto devo conoscerlo… e neppure studiarlo costa troppo, per chi voglia impararlo davvero”. Normalmente sono molto scettico di fronte a chi sostiene questo, ma Andrea è l’unica persona che abbia mai incontrato ad aver comprato e finito tutto il corso Assimil (che tuttavia sconsiglio a chiunque non abbia la sua costanza).

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Perché questo lavoro tutelerebbe i diritti minimi? La sua busta paga coincide col salario ricevuto, innanzitutto. La malattia è pagata. Anche quando è il figlio ad ammalarsi e occorre portarlo dal pediatra. Quanto alle ferie il locale ha delle ferie aziendali. Lui quindi le riceve senza doverle chiedere.
Tra i difetti che elenca, il fatto che il personale sia forse sottodimensionato, probabilmente in conseguenza della politica di gestione del personale. Lui ad esempio si sente a disagio nei confronti dei colleghi, quando si sente male: “Certo, se stai male devi stare a casa, ma poi da casa penso ai miei colleghi, con cui si è creato un ottimo rapporto, e so che senza di me dovranno lavorare il doppio…”.

Nell’ultima parte dell’intervista cerco di scoprire come abbia ottenuto le sue conoscenze sul mondo del lavoro tedesco, a partire dalle istituzioni che a vario titolo si occupano di supportare gli italiani all’estero, ma non solo, e quindi ComItEs, Ital-Uil, il sindacato tedesco per la gastronomia NGG e la Libera Unione delle lavoratrici e dei lavoratori, partiti o movimenti politici e per finire le varie pagine Facebook degli italiani all’estero e le riviste online italo-berlinesi. Andrea conosce il ComItEs per aver letto la sua guida sul sistema sanitario. Ha comprato e letto attentamente la guida “Tutti a Berlino” di Simone Buttazzi e Gabriella Di Cagno, che elogia e consiglia. E poi, ovviamente, ha ricavato altre informazioni grazie al passaparola. I partiti politici o le riviste online non l’hanno aiutato, il primo articolo sul tema del lavoro nero in gastronomia che ha letto è stato il mio.

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La famiglia emerge come il vero motivo di un interesse reale all’integrazione. D’altra parte lui e la moglie si sono trasferiti appositamente per fare dono ai loro figli del vantaggio del bilinguismo.
L’intervista termina e Andrea deve entrare a lavoro. La moglie lo raggiunge per prendere il bambino. Mi scuso se gli ho complicato la mattinata, ma mi ringraziano entrambi molto calorosamente, lodando l’iniziativa, tanto che prima di salutarci faccio in tempo parlare anche con la moglie, molto interessata al mio lavoro.
Mi chiede se denunci solo le irregolarità della gastronomia. Rispondo di si, scusandomi. Lei capisce e orgogliosamente racconta di come si sia battuta per ottenere la maternità in un altro settore, sempre lavorando presso datori di lavoro italiani. Si è rivolta all’Ambasciata, che le ha offerto una lista di avvocati. Quello che ha scelto si è dimostrato adeguato al compito e, una volta vinta la causa ed entrati in confidenza, le ha detto “il problema di voi italiani è che avete paura di denunciare”, stigmatizzando così un timore nei confronti degli strumenti di giustizia che ha constatato nell’esercizio della sua funzione.

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ll bimbo lancia segnali di stanchezza chiari anche per me, che non ho figli, nonostante abbia la stessa età di Andrea. Mi congedo davvero, stavolta. E ringrazio la moglie che mi dà la chiave per capire la loro storia: “Chi ha famiglia ha bisogno di certezze”, dice. “Non puoi più permetterti lavoretti del genere”, aggiunge, riferendosi ai lavoratori che non hanno contratto, ferie, malattia e che hanno buste paga che non corrispondono al salario reale. Quelli che provano a scordarsi al Berghain quanto sia fragile la loro vita.

“È stato molto importante, iscrivendo i bambini a scuola, vedere quanti dei vecchi immigrati italiani sono rimasti invischiati nel meccanismo dei sussidi, dai quali non sono più riusciti a staccarsi”. Ma mettendomi nei panni di un padre, chiedo se invece avere una famiglia non sia una ragione in più per accettare qualsiasi condizione, pur di ottenere più soldi. “Decisamente no”, risponde la moglie di Andrea. “Queste alternative di cui parli sono cose effimere, che costano più tempo del denaro che offrono, senza contare che sono illegali. Qui poi a Berlino hai molta scelta e se accetti qui queste condizioni è un tuo errore e una tua colpa. Qui puoi scegliere”.

Rimane immobile sulla soglia della dignità personale e non ho interesse a insistere. La aiuto a portare il passeggino oltre il pericoloso gradino del bar dove abbiamo chiacchierato e non so bene cosa augurarle. Mi pare se la cavi benissimo senza il mio aiuto.

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