Le maschere della commedia dell’arte alla Dante di Berlino
di Eleonora Bitti
Ci siamo ormai lasciati alle spalle i festeggiamenti di Carnevale sullo sfondo di una Berlino fredda ma assolata. In metro si incontravano bambini travestiti da supereroi e il profumo di frittelle e frappe usciva coraggiosamente da qualche casa italiana. Ma da dove trae le sue origini il Carnevale italiano? Chi sono i veri protagonisti e i travestimenti più antichi? Si tratta delle maschere.
Personaggi che nascono insieme alla Commedia dell’Arte, alle quali il grande Carlo Goldoni diede voce. Tutto parte dai canovacci seicenteschi, ovvero semplici scalette che lasciavano però largo spazio all’improvvisazione del singolo attore. Da qui presero vita i personaggi principali: l’anziano mercante vizioso Pantalone e i vari servi combina guai detti “Zanni”. I loro degni eredi sono le maschere che tutti conoscono: Arlecchino, Pulcinella, Brighella, Pantalone e molte altre.
Presentiamo per primo proprio Arlecchino: il servo bergamasco perennemente affamato con la tipica maschera nera. Il nero nel seicento richiamava il ghigno di un demone a cui possiamo connettere anche l’origine del suo nome. La povertà invece emerge tutt’ora nel vestito colorato, ottenuto cucendo insieme pezzi di stracci. Arlecchino è spesso in compagnia del compaesano Brighella, un altro servo insolente, riconoscibile per il vestito bianco da cuoco/maggiordomo, è lui la vera mente degli inganni e delle bugie architettate dalla coppia. In scena, poi, non può mancare Balanzone, maschera bolognese di un professore studioso che si perde in sproloqui latineggianti, e non perde occasione per ricordare a tutto il pubblico quanto siano prestigiose le sue vuote opinioni.
Ogni maschera aveva il suo carattere, le sue frasi tipiche, eppure non era sempre così semplice rivolgersi al pubblico. Infatti le maschere fisiche indossate dagli attori potevano essere fatte di cartapesta, un materiale duro, facile a rovinarsi a contatto con il sudore. Ecco perché si preferivano quelle di cuoio: lavorate a mano, accompagnavano il proprietario per tutta la vita. Il processo di identificazione passava proprio attraverso il tatto e la fatica per la costruzione della maschera. I modelli erano e sono tutt’ora molteplici: maschere prominenti con nasoni sporgenti o piatte, da indossare lateralmente o frontalmente. Ogni attore imparava a trasmettere da dietro la maschera l’espressività che il personaggio richiedeva. Venivano enfatizzati i movimenti del corpo e soprattutto quelli della testa: attraverso questi “colpi di maschera”, lo spettatore riusciva a capire con chi il personaggio stesse parlando, se si fosse fermato a pensare, o ancora, se si rivolgesse al pubblico.
Ecco allora che la maschera diventa un unico grande occhio, che si muove preciso per mostrarsi alla gente e per catturarne lo sguardo. E non è cosa facile per un attore che non mostra il proprio volto, che non cambia espressione facciale o non alza un sopracciglio sorpreso; il suo recitare è fatto di sfumature e micromessaggi che neanche lui sa se verranno colti. Il protagonista non è l’attore, bensì la maschera stessa. Il lavoro sotto maschera, personale e non visto, assume i connotati di un viaggio verso nuovi significati fondati sulla rinuncia all’ovvia espressività facciale e sulla contestualizzazione ritmica a tutti i costi. L’effetto finale risulta essere un qualcosa di mistico… per l’attore paragonabile ad un’esperienza quasi divinatoria.
Se volete saperne di più, vi aspettiamo il 15 Marzo a Oldenburger str. 46 nella sede della Dante di Berlino.
L’associazione è lieta di ospitare il giovane attore Niccolò Rossi, berlinese d’adozione, che approfondirà il tema con una sua presentazione a partire dalle ore 19.00.
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