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Potrebbe piovere: Wedding blues

di Riccardo Coradeschi

Wedding è stato il primo quartiere dove ho vissuto a Berlino. Dopo una breve parentesi (molto poco borghese) a Prenz Berg, Wedding mi ha richiamato a sé, non per il fascino bohémien che lasciamo volentieri ai quartieri del sud, né per l’atmosfera da upper-class che si può trovare tra Ku’damm, Charlottenburg e il sud-ovest della città.

Non ha i locali di Kreuzberg né i teatri di Mitte, e quando ho provato a cercare online qualche evento in zona ho trovato solo una serata speciale in un club di scambisti, evocativamente chiamata “Die Orgie”. Per quanto il titolo sottilmente allusivo risultasse accattivante, non era proprio ciò che speravo di trovare. Perfino i parchi in questa zona tendono ad essere più contenuti e meno lussureggianti.

Quando annunciai che mi sarei trasferito a Wedding definitivamente, un’altra italiana a Berlino, con espressione tra il confuso e lo spaventato, mi bisbigliò:
Ma lì è pieno di immigrati…
Le parole non possono rendere il silenzio imbarazzato che ne seguì, ma, se il termine risus sardonicus vi dice qualcosa, avrete un’idea dell’espressione che stiracchiai a fatica sulle labbra.

Bayer
Tegeler Straße, Wedding. Boonekamp > Günter Haase, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

Il mio status da “Immigrato +” a ben poco mi vale nell’Afrikanisches Viertel. I miei capelli biondi ed occhi azzurri mi fanno sembrare il più stereotipato dei tedeschi, eppure guardo con invidia ai ragazzini, tedeschi di seconda o terza generazione, che passano senza sforzo dal tedesco al turco, o al francese, o a qualsiasi altra lingua i loro nonni abbiamo portato con sé dai Paesi d’origine.
Al cinema, le versioni in lingua originale sono sempre e solo di film turchi, che spesso celebrano la première tedesca all’Alhambra, piccolo multisala berlinese che allestisce passerelle hollywoodiane per divi anatolici.

Perfino al supermercato i prodotti nelle varie corsie sono indicati sia in tedesco che in turco. In un regno di bilinguismo, io sono linguisticamente pirla.
Dovrei sentirmi doppiamente alieno, estraneo alla matrioska culturale che mi circonda. A volte succede. Quando il sole non si vede da giorni, quando mi manca il pranzo che segnava le mie domeniche d’infanzia, quando avrei solo voglia di due chiacchiere con gli amici di sempre, mi sento estraneo, mi sento immigrato.

Foto: Bram Azink on Unsplash

Non sono scappato da guerre, dalla fame, dalla miseria, dalla violenza, ma noi emigrati siamo disponibili in ogni forma, dimensione e storia personale. I sogni adolescenziali di vivere all’estero lasciano lentamente spazio alla consapevolezza di una nostalgia che vorrei non sentire, ma che diventa un po’ più definita con ogni anno che passo lontano dall’Italia. Eppure come tornare a viverci, dopo che gli anni in cui ho vissuto a Berlino sono quelli che hanno definito la mia vita adulta? Ogni volta che torno in Italia sembra esserci un ritorno alla routine dei miei 19 anni, come se non sapessi funzionare da adulto una volta valicate le Alpi.

E dunque rimango a Wedding, sottotono e tranquilla, immigrata e proletaria, rossa e prossimamente trendy, eterna seconda ma prima ed insostituibile per me.
La parola “casa” si è ormai associata nella mia mente a immagini di questo quartiere, angoli da sentire miei, ritagliati dalla grande città di tutti gli altri.


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Le attrattive di Wedding, per me, stanno in questi piccoli scorci di quotidianità dove affondo le mie radici, ed è forse questo ciò che mi piace del quartiere: l’essenza domestica, ordinariamente speciale di un posto dove vai a fare la spesa o a comprare un paio di calzini, ma non a ballare. Sarà che sono cresciuto in una cittadina piccola, e ho fatto tanti giri al supermercato e pochi su una pista da ballo.

Forse è meno affascinante di altri quartieri di Berlino, ma è bello ritrovarsi tra lo späti all’angolo ed il negozio con i piumini più deliziosamente brutti del mondo.
E poi, diciamocelo: almeno non è Britz.

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