Berlino è femmina. PorYes Award: ha senso parlare di pornografia femminista?
di Valentina Risaliti
“Comprare e fare pornografia è un atto femminista”
È pronunciando questa frase che l’attivista e sex worker canadese Michelle Gallant ha ritirato, sabato 21 novembre, uno degli oyster-trophy della nona edizione del PorYes, il festival europeo dedicato alla pornografia che intende promuovere i valori del sex positive movement.
Avviata nel 2009 sulla scia del Feminist Porn Award di Toronto (di cui la stessa Gallant fu fondatrice), la manifestazione è il frutto dell’impegno e della passione della Dottoressa Laura Méritt, politologa e linguista originaria di Wadern, celebre per l’attivismo tra le fila delle femministe pro-sesso (qui una sua intervista rilasciata a Il Mitte).
Ma cosa s’intende per “feminist pornography”? Secondo Laura Méritt per essere femminista un film pornografico deve rispettare almeno tre criteri fondamentali. Innanzitutto deve prevedere che ogni partecipante provi piacere durante l’atto. Poi bisogna che mostri una certa diversità in termini di età, provenienza, biologia e orientamento sessuale. Infine, occorre che rispetti determinati standard etici, sia per ciò che concerne le condizioni lavorative della troupe, sia per il tema del consenso e del rispetto dei diritti umani.
In sostanza, dunque, l’intento primario è quello di promuovere un prodotto pornografico etico e in contrasto con il mercato mainstream, educando il fruitore a una sessualità realistica e inclusiva, in cui il rispetto di sé e degli altri (anche da un punto di vista emotivo) occupi un ruolo centrale. Un obiettivo che, tuttavia, alcuni faticano ad associare al movimento femminista, preferendo collocare simili valori all’interno della corrente della “fair pornography” o, se si vuole, pornografia etica.
Un dilemma, questo, che – come ha fatto notare la Méritt dal palco non senza una nota di disappunto – sembra turbare gli stessi fondatori del primo festival di pornografia femminista del mondo, quello appunto di Toronto.
Da quest’anno la manifestazione canadese ha infatti optato per un più generico Toronto International Porn Festival, ritenendo l’accezione “femminista” ormai limitante o, forse, solo superata. Ma quali sono le implicazioni politiche di una simile scelta?
Non è forse un caso che quella stessa sera, poco prima di raggiungere il gala, proprio un’amica mi interrogasse sul senso che potesse avere definire la pornografia “femminista” e, in definitiva, sul significato ultimo del femminismo stesso. Esprimendo un’opinione probabilmente diffusa, sosteneva che più che di movimento femminista, si dovrebbe oggi parlare di difesa dei diritti umani, giacché “femminismo” è una parola difficile, spesso preda di estremisti, capace di creare tensioni e incomprensioni quandunque venga pronunciata.
Io dal canto mio sostenevo che invece di femminismo ha senso parlare eccome e proprio a causa del focus che esso pone sulla condizione femminile, spesso peggiore nei luoghi in cui i diritti umani degli abitanti di sesso maschile sono già di per sé irrisori. Sostenevo che gli estremismi, purtroppo, tendono a corrompere la maggior parte dei movimenti, ma che decidere per questo di non puntare l’ago della bussola proprio sull’ineguaglianza di genere e sul modo in cui questa viene introiettata quasi automaticamente nella maggior parte dei sistemi esistenti, fosse un po’ come rinunciare a una lotta importante per paura di essere fraintesi.
Porre l’accento su una causa specifica è un modo per evidenziare l’esistenza di un problema. Il femminismo si occupa di diritti umani, ma decide di farlo adottando la prospettiva dell’uguaglianza di genere. Dire che non c’è più bisogno del femminismo, è un po’ come dire che non c’è più bisogno dei movimenti di difesa dei diritti delle comunità LGBT o afroamericana. Affermazioni, si converrà, piuttosto ardite, dalle quali in molti si sentirebbero di dissentire.
Perché allora il femminismo si trova spesso nella scomodissima posizione di doversi difendere non tanto in funzione di ciò che è, ma di ciò che si pensa che sia? Ha il femminismo negli anni fallito nell’arduo compito di spiegarsi al resto del mondo? O tanta ostilità suggerisce, in fin dei conti, che il movimento sia ancora necessario proprio perché sfida preconcetti talmente radicati e introiettati da farlo risultare scomodo anche al più strenuo difensore di una qualche rivoluzione umana?
Durante lo spettacolo Laura Méritt ha evidenziato in più occasioni quanto la pornografia rappresenti un’opportunità unica per fare politica, per creare ponti, per promuovere una visione del mondo più libera e inclusiva. E lo ha fatto servendosi della parola “femminista”, cercando forse di ribadire un significato originario di cui in molti sembrano essersi dimenticati.
La storia ci insegna che se una parola non viene pronunciata troppo a lungo, i casi sono due: o di quella parola non c’è davvero bisogno oppure rappresenta un tabù. Ebbene, in tutta onestà, a me pare che il sessimo non sia acqua passata, per cui non vorrei che al femminismo toccasse la seconda sorte.
Se femminismo è un termine “sporco” o “difficile”, allora occorre cercare di attribuirvi nuovi e positivi significati. Dire che siamo femministe e femministi non esclude di poter essere anche altro, come un buon genitore, una donna attraente ed eterosessuale o, appunto, un fruitore di pornografia. Femminismo non è una parola sporca, ma un movimento ancora necessario, senza il quale molti di coloro che hanno deciso che non ce n’è più bisogno non potrebbero votare o prendere parte al dibattito. In fin dei conti, come sottolineava Renate Sieber: “Nei processi di cambiamento sociale della soggettività femminile si intrecciano due tempi sostanzialmente diversi: il tempo storico e sociale, improvvisamente vorticoso e veloce della modernità, e il tempo interiore che coinvolge le strutture psichiche che mutano con lentezza e secondo ritmi totalmente diversi”.
Un giorno forse non ci sarà più bisogno di femminismo: vivremo in una società in cui gli esseri viventi, tutti, godranno di eguali diritti e considerazione. Oggi, però, tutto del mondo sembra suggerire che ci sia ancora molto lavoro da fare. Rinunciare a un ideale solo per paura che venga frainteso o perché alcuni segnali rivelano che un progresso ci sia effettivamente stato, vuol dire aver già perso in partenza ed è forse indicativo di quanto il problema, in fin dei conti, ci domini ancora profondamente.
VALENTINA RISALITI è una reporter e videomaker, con la passione per il documentario d’autore, i libri (tutti) e le teorie del complotto. Degna discendente di una famiglia di “amazzoni”, è da sempre legata ai temi del femminismo, della difesa dei diritti delle donne e al rispetto dell’ambiente. Idealista incallita, viene spesso tacciata da amici e parenti di essere insopportabilmente critica. Ha studiato filosofia e giornalismo, ora anche antropologia, e ama riconoscersi nelle parole delle grandi donne del passato. Oggi vive a Berlino, dove tra un libro di Patti Smith e uno di Simone de Beauvoir, si dedica a diversi progetti. www.valentinarisaliti.com / Twitter: ValentinaRisal