Unconventional Berlin Diary: Killer Game
Berlino, tre tempi. La prima volta che l’ho lasciata, a giugno, sapevo di volare in bocca all’inferno. Un messaggio allarmato, “torna subito, tua madre sta molto male“, l’improcrastinabile, la malattia, la morte, sapete, quelle cose lì. Cose viste troppo spesso, cose viste troppo a lungo, la sensazione di perdere una guerra dopo aver perso tantissime battaglie. Ca 19-9. Sembra il nome di un missile, ma è quello di un marker tumorale, che indica le patologie del tratto gastrointestinale. I valori normali sono tra 0 e 33, quelli di mia madre erano a 164. Mentre la lasciavo, Berlino mi sembrava bella come l’illusione della felicità. Coincideva con quella serenità che stavo per perdere, con un futuro fuori dalla mia portata. Era bella.
Il mio ritorno in Italia è stato troppo doloroso da descrivere, preferisco saltare le notti insonni, lo stomaco contratto, i colloqui sconfortanti con l’oncologo e l’attesa sfibrante del peggio, per arrivare subito alla parte finale, quando sono ripartita temporaneamente per Berlino con lo scopo di sbrigare alcune faccende legate al Finanzamt.
Mi ha fatto piacere ritrovarla intatta, calda, in un certo qual modo accogliente. Sono stata al Pride e ho intervistato degli attivisti venezuelani. Se guardo le foto di quella giornata, si vede che non stavo bene. In tutte quante sono molto pallida, i miei occhi appaiono stanchi e tristi anche quando sorrido, in generale non ho un bell’aspetto.
Il giorno dopo ho voluto vedere Elisa ed Alex, due cari amici. Abbiamo passato un pomeriggio molto bello, abbiamo chiacchierato amabilmente e abbiamo bevuto vino… forse un po’ troppo, per quanto mi riguarda. Era bianco, dolce e traditore e sulla strada del ritorno mi sono sentita decisamente brilla e in preda alla nausea. All’altezza di Frankfurter Tor ho visto un cielo dai colori incredibilmente intensi, le nuvole spiccavano nitidissime contro un cielo oro, arancio e azzurro. Mi sono scattata istintivamente una foto, non sapevo che quella foto sarebbe diventata il simbolo della fine di una parte della mia vita. Quella stessa sera infatti sono diventata single. Tempismo perfetto, kaputt, punto e partita. Salto la parte in cui ho dato spettacolo e piuttosto ricordo il momento in cui una telefonata dall’Italia mi ha annunciato che mia madre non doveva più morire, che le previsioni dell’oncologo erano errate e che l’alterazione del marker era dovuta ad altro.
Ho sentito il peso del mondo rotolarmi di dosso ed è rimasto solo l’altro dolore, sordo e inutile, che si rifiutava di affondare.
Ho fatto ancora una volta un biglietto per l’Italia, con uno stato d’animo post-nucleare. Non ero più senza speranza e dentro di me sorridevo per la più importante delle ragioni, ma la mia vita, per come l’avevo vissuta fino a quel momento, non esisteva più ed ero sopraffatta dalla stanchezza. Passeggiando verso Frankfurter Allee, Berlino mi sembrava un sogno. Era felliniana, per degli aspetti malinconica e ormai ero certa che mi avrebbe aspettato, l’avrei rivista. Eppure ce l’avevo con lei, era il posto in cui non sapevo più che fare. Passando davanti a un ristorante ricordo di aver visto delle decorazioni d’argento appese all’entrata, dei nastri che ondeggiavano insieme al vento. Ho pensato che fossero bellissimi. Il giorno dopo sono partita per l’Italia.
Salto ancora la fase in cui mi sono chiusa, in cui ho programmato un viaggio in Grecia con mio fratello e a Barcellona con mio cugino, in cui ho camminato ogni mattina all’alba ascoltando rap italiano della Machete Records (Spinto al limite/La via estrema fino alla scena del crimine/Killer Game!/Vivo senza paura/ Stringo la cintura, il flow ti porta giù dalle ripide!).
Salto i sorrisi, le bestemmie, la rabbia, il gelo a luglio e le pretese assurde.
Salto tutto e arrivo al punto in cui è successo quello che io chiamo l’inaspettato. Dopamina, serotonina, noradrenalina, all’improvviso ho avuto l’impressione di avere un gigantesco rubinetto aperto al centro della testa che mi inondava di luce, dandomi l’impressione di non aver bisogno di mangiare, di dormire, di fare nient’altro che concentrarmi su quanto stava accadendo. Poi, alla fine dell’estate, sono ripartita per la Germania, definitivamente.
Quando sono tornata a Berlino, la malinconia felliniana me la portavo addosso io, mentre la città aveva recuperato il suo ritmo di fine estate, riscaldandosi in vista del freddo, se mi passate il calambour.
L’inaspettato era rimasto in Italia e ancora una volta ero divisa in due. Una cosa che mi è capitata non una, ma mille volte: un bisogno vitale da una parte e l’esistenza dall’altra, il lavoro a levante, il piacere a ponente, speranze contrapposte, nazioni diverse, stelle polari impazzite… et cetera, et cetera, et cetera.
Ancora una volta ero sradicata, esaltata, furiosa, felice e senza pace.
Suonerebbe magnificamente, come epitaffio.
Però non ho fretta.
Vorrei provare ad essere felice, prima.
Colonna sonora: “Killer Game”-Salmo fest. Gemitaz & Madman ♠
Lucia Conti ama visitare mostre e chiese in tutta Europa, con una particolare predilezione per Bruegel, Van Gogh e Caravaggio e per l’architettura gotica.
Tra i registi apprezza in modo particolare Bergman, Wiene, Kitano, Fellini e Lars von Trier e adora l’ultimo Polanski.
Per quanto riguarda la letteratura ha una vera ossessione per Kafka e in particolare per “La metamorfosi”, che ama rileggere a cadenza regolare e che produce su di lei uno stranissimo effetto calmante. Privatamente scrive cose che poi distrugge.
Attualmente vive e resiste a Berlino. E ne è follemente innamorata.