Berlino è femmina. Il caso Weinstein e il tabù dello stupro

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Weinstein
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di Valentina Risaliti

Apparso su tutti i giornali nelle settimane scorse, il caso Weinstein ha sollevato non poche polemiche. Dopo che il New York Times in una sua inchiesta ha svelato che il padre di Miramax avrebbe per anni abusato del suo potere per molestare – e in alcuni casi violentare – decine di donne, tra attrici, conduttrici e modelle, l’opinione pubblica si è spaccata in due, lasciando così trapelare non poche inquietanti posizioni in merito al tema della violenza sessuale.

Tra chi si è accanito, come spesso accade, non sullo stupratore, ma sulla vittima, attribuendole svariate colpe, tra cui quella di aver in fin dei conti usufruito dei favori guadagnati proprio grazie alla violenza subita, non è mancato chi ha ripetuto la classica cantilena del “beh, ma in fin dei conti potevano anche rifiutarsi”, come se in certe situazioni prendere la porta e andarsene fosse la cosa più naturale del mondo.

Tuttavia, l’aspetto più ridicolo e grottesco dell’intera vicenda è constatare quanto ancora ci si stupisca davanti all’evidenza di una violenza sessuale strutturale, profondamente radicata non solo in determinati ambienti, come quello del cinema e dello spettacolo, ma nel sistema stesso.

Sconvolge infatti che nonostante i casi di abusi e molestie sessuali siano all’ordine del giorno, l’opinione pubblica abbia sempre un po’ la tendenza a cadere dal pero, dimentica del fatto che si tratti in realtà di episodi molto comuni. Colpevole è forse quel sistema di idee che vive ancora oggi la violenza sessuale come un tabù e la cui diretta conseguenza è un silenzio inquietante che non permette di valutare la reale entità del problema.

Ingannevole è il cuore photo
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Durante un’intervista trasmessa recentemente da Deutschlandfunk, all’attivista e consulente mediatica Anne Wizorek è stato chiesto se un simile terremoto avrebbe potuto sconvolgere anche ambienti tedeschi, quasi a suggerire che certi episodi difficilmente potrebbero verificarsi in un Paese civile e progressista come la Germania. Presto detto, dati alla mano, la Wizorek ha dichiarato che proprio in Germania il 33% delle donne denuncia abusi e molestie sessuali sul posto di lavoro, mentre da una ricerca promossa dal Bundesfamilienministerium su sicurezza, salute e tenore di vita delle donne, è risultato che oltre il 58% della popolazione femminile sperimenta episodi di molestie sessuali, a partire dai 16 anni. Ora davanti a dati tanto allarmanti, sarebbe forse più opportuno chiedersi se la domanda sia legittima (o per lo meno intelligente).

Il problema sembra dunque essere che non se ne parli abbastanza e che la vittima di un abuso abbia spesso il terrore di esporsi, proprio a causa di quello stigma che ancora pesa non tanto sul carnefice, quanto su chi ha patito l’abuso.

Subire una violenza sessuale è un fatto intimo e i cui confini possono talvolta sembrare sfocati, non perché di violenza non si tratti, ma perché cresciamo diseducati a riconoscere e nominare l’abuso quando ne sperimentiamo uno. Complici una certa percezione della femmina e diverse insicurezze, per una donna che ha la prontezza di spirito a reagire, ce n’è una che rimane paralizzata dal terrore, una che lascia fare sperando che finisca presto e una che ancora oggi si chiede se di violenza sessuale si sia effettivamente trattato. Nel caso Weinstein poi c’era la carriera in gioco e il mettersi contro uno dei mostri sacri di Hollywood, capace di stroncarti le gambe con una telefonata.

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Lo stigma che pesa sul no, soprattutto quello di una donna, è un fatto assodato, così come è un fatto che spesso le vittime non denuncino i propri carnefici per non incorrere in tutta una serie di commenti e ostilità.

Nessuno si sognerebbe mai di dire a una vittima di pedofilia che trovi solo dopo anni il coraggio di denunciare l’accaduto, che avrebbe potuto parlare prima o che se la sia andata a cercare. Tuttavia si assiste spesso – e tristemente con frequenza in Italia – a casi in cui la tredicenne violentata a turno dai compagni di scuola venga osteggiata da un intero paese per aver gettato una brutta luce sui suoi abitanti, in seguito alla denuncia del fatto. Accadde in Calabria qualche tempo fa, ma è una notizia che potrebbe semplicemente essere riciclata in ogni redazione, poiché si verifica più spesso di quanto si pensi e non solo nella Penisola.

Ce lo ricordava bene un film della regista svedese Beata Gårdeler, “Flocken”, in cui una ragazzina di 14 anni denunciava l’abuso sessuale di un compagno di classe senza essere presa sul serio e, anzi, finendo nel mirino dei concittadini. Qualche anno fa, al Milano Film Festival, ebbi l’opportunità di parlare con la regista e ricordo che mi disse che la pellicola era ispirata a un fatto di cronaca svedese. La Gårdeler aveva vissuto la creazione del film come un imperativo morale, perché nonostante si guardi alla Svezia come a un fulgido esempio di civiltà, simili episodi sono ricorrenti e non se ne parla ancora abbastanza. Come a dire: tutto il mondo è paese.

Ora se l’opinione pubblica è in grado di attribuire la colpa di una violenza sessuale alla tredicenne che l’ha subita, figurarsi cosa è capace di fare quando le vittime in questione sono importanti star internazionali come Gwyneth Paltrow o Asia Argento, donne a cui attribuiamo un certo status sociale e anche una certa autorità. Particolarmente spiacevole (per usare un eufemismo) è stata infatti la reazione alla confessione dell’Argento, la quale, anziché trovare conforto nel suo Paese d’origine dopo una tanto amara ammissione, è stata bersagliata da accuse, critiche e, ancora una volta, quell’inquietante “potevi dire di no”. Grazie al cielo Asia ha alzato il dito medio e ha detto fate pure, ma l’atteggiamento di fondo resta.

La violenza sessuale è un cancro silenzioso e colpisce molte più persone di quanto si pensi, spesso le più insospettabili. La battaglia contro di essa inizia dal denunciare e parlare, prima o dopo, poco importa. Ed è una lotta di tutti, perché anche gli uomini vengono violentati: ne sono un esempio gli abusi che hanno luogo all’interno delle carceri maschili, un problema a lungo ignorato e che le femministe hanno contribuito a portare in luce.

Il primo passo verso il cambiamento sociale inizia proprio dalla capacità di poter nominare il problema a viso aperto. Se Weinstein è riuscito per anni a muoversi indisturbato, compiendo i suoi atti osceni, è stato solo grazie all’omertà, ma davanti a una denuncia aperta di decine di donne nessuno ha potuto più proteggerlo. Parliamo dunque, condividiamo le nostre esperienze e non stupiamoci davanti all’abuso sessuale: cerchiamo invece di educarci al confronto intelligente e consapevole, evitando in primis la stigmatizzazione della vittima.

 

VALENTINA RISALITI è una reporter e videomaker, con la passione per il documentario d’autore, i libri (tutti) e le teorie del complotto. Degna discendente di una famiglia di “amazzoni”, è da sempre legata ai temi del femminismo, della difesa dei diritti delle donne e al rispetto dell’ambiente. Idealista incallita, viene spesso tacciata da amici e parenti di essere insopportabilmente critica. Ha studiato filosofia e giornalismo, ora anche antropologia, e ama riconoscersi nelle parole delle grandi donne del passato. Oggi vive a Berlino, dove tra un libro di Patti Smith e uno di Simone de Beauvoir, si dedica a diversi progetti.  www.valentinarisaliti.com / Twitter: ValentinaRisal