“Per fortuna o purtroppo”. Un toccante racconto sulla disabilità
Questo bellissimo racconto sulla disabilità è stato scritto dal professor Stefano Avanzini, un collaboratore di Artemisia, una rete composta da genitori italo tedeschi con figli diversamente abili e da professionisti del settore disponibili a fornire aiuto e supporto informativo a chiunque ne abbia bisogno. L’esperienza di Stefano con le persone diversamente abili ha avuto inizio con Christian, un ragazzo che ha cambiato la sua vita.
di Stefano Avanzini
Io, per fortuna o purtroppo, non ho ho avuto un figlio o una figlia diversamente abile: i miei due figli, per fortuna o purtroppo, sono, ognuno a suo modo, spaventosamente normali. Hanno tutti i cromosomi “giusti”, non hanno bisogno di una carrozzella per muoversi, non hanno, a quanto pare, ereditato lo strisciante autismo del padre, insomma, sono come tutti gli altri, e circa il loro orientamento sessuale, faranno le loro scelte, e auguro loro di farle lontano da Pavullo, perché, è vero, siamo tutti uguali e per fortuna tutti diversi, figli dello stesso Dio o della stessa scimmia, in questo più che in ogni altra cosa, ma a Pavullo essere diversi, troppo diversi, soprattutto in questa cosa, sarebbe faticoso (pure in Italia, poi… a Roma o a Torino, una donna sindaco l’hanno votata, ma se i pentastellati avessero candidato un Wowereit dubito che avrebbero fatto il pieno di voti che hanno fatto con Raggi e Appendino).
Normali e normodotati: intelligenti quanto basta per chiedersi e cercare di capire cosa vogliono fare della loro vita, senza l’ansia di volersi sentire per forza speciali, accettano la loro normalità senza impaniarsi, come il loro padre, nelle reti della “sindrome di Joe Gideon” (Io ti ho fatto la diagnosi. Tu hai una paura fottuta di essere normale).
Forse perché, diversamente dal loro padre, a cui però va, insieme alla madre, almeno questo merito, nessuno li ha fatti crescere pensando che sarebbero stati meno amati se non fossero stati i più bravi e i più intelligenti. D’altro canto, lo ricordava anche Bollea in un suo non più recente libro: “Nulla uccide un bambino come le aspettative deluse di un genitore”.
E se Dio vuole, io, topo di biblioteca innamorato di letterati e poeti morti da almeno duemila anni, mi ritrovo con un figlio maggiore futuro ingegnere energetico e presente teatrante, interessato alla bioedilizia quasi quanto ai laboratori di teatro che, tra centri di accoglienza e lavoro di scena, quasi diuturnamente frequenta in quel di Bologna senza peraltro, come invece temporibus illis suo padre, restare indietro con gli esami, e con un figlio minore che tra volley e amici cerca nella poco amena Pavullo la sua via, tentando senza riuscirci di farsi ogni anno bocciare ein questo erede perfetto dei geni paterni.
Molto diversi tra loro quanto da me, perché appunto, stavolta per fortuna o per fortuna, figli dello stesso Dio o della stessa scimmia, siamo tutti uguali e tutti diversi.
Ma per fortuna ho avuto in classe, primo di tanti venuti dopo di lui in ventiquattro anni di (poco) onorata carriera didattica in quel di Pavullo, un ragazzo che negli anni si è chiamato handicappato, disabile, diversamente abile, persona con disabilità, ma che si chiamava e per fortuna ancora si chiama semplicemente Christian. Tetraparesi spastica, lesione alle corde vocali provocate dall’uso maldestro del forcipe da parte di un ginecologo in stato di ebbrezza alcolica, problemi respiratori che difficilmente, toccando tutti i ferri possibili, gli faranno varcare i quarant’anni di vita, si muove su una turbo-carrozzina griffata Ferrari (a pochi tiri di schioppo da Maranello, come evitarlo?), parla con l’ETRAN, ma i suoi occhi, ridentissimi e per nulla fuggitivi, son più ciarlieri e comunicativi a un tempo delle lingue di tanti di noi normali.
Questo ragazzo è davvero, oltre che intelligentissimo e intellettualmente vivace, nei limiti delle opportunità che crescere a Pavullo ha potuto offrirgli (anche a lui, sono certo, Pavullo sta stretta, e la cambierebbe con Berlino senza pensarci un attimo!), un’autentica forza della natura, pieno di vita per sé e per gli altri, una macchia di colore, di tutti i colori, nel mare di grigio dei tanti normali, più o meno adulti che fossero, che mi era dato di frequentare a Pavullo.
Forse perché ha una madre, ragazza madre, che si chiama Morena, ma alla quale starebbe bene il nome di Artemisia.
Questo cristiano di un Christian, ahimè mi ha fatto sposare (cosa che non potrò mai perdonargli): perché, dopo due docenti (auto)parcheggiate sul sostegno in attesa del sospirato approdo alla disciplina, anche lui ha pescato il suo jolly, e finalmente si è ritrovato un’insegnante “nu’ poco terrona” che il sostegno, dopo una laurea in Lettere e due anni di specializzazione, se l’era scelto come mission.
E quando questa “terrona” gli ha chiesto se in quella landa desolata di scuola ci fosse qualche persona, magari di sesso maschile, interessante, lui, maledetto bugiardo, gli ha sparato fuori che sì, c’era un suo prof, uno un po’ strano, un po’ buffonesco quando non onestamente ridicolo, però simpatico e, sì, un tipo interessante.
Risparmio al lettore il tragico epilogo della storia, consumatosi in una torrida domenica di luglio in una biblioteca, davanti ad un sindaco officiante e a un cristiano paraninfo ghignante di soddisfazione per la splendida beffa, e ancor più sghignazzante di cachinni alla battuta del mio Preside di allora che, gozzovigliante al tavolo a mie spese, se ne uscì con la spiritosa battuta, che ovviamente, noblesse oblige, m’è toccato pure trovare divertente: “Ma Ersilia (così si chiama la, da allora, mia Signora e Padrona), perché ti sei voluta portare il lavoro a casa?”.
Questo cristiano è stato mio e nostro studente per sei anni e mi ha offerto quella possibilità di “aprire” i miei occhi che la nascita di due figli “normali” mi avrebbe, poi, senza di lui, per sempre negato. Perché bisogna viverci con una persona disabile, da genitore, da fratello, per fortuna anche da insegnante, ancora meglio se di sostegno (senza dimenticare che, 104 alla mano, “il docente di sostegno è sulla classe, e tutti gli insegnanti della classe sono sull’alunno diversamente abile”), per capire quanto sia limitata non la loro vita, ma la visione che noi cosiddetti “normali” abbiamo di loro. Parliamo del loro essere, delle loro per noi diversamente inimmaginabili capacità, di quante cose sanno fare che noi, semplicemente, neanche ce le sogniamo, di come loro, tanto più di noi, hanno quella meravigliosa capacità, direbbe Thoreau, semplicemente di “guardarsi negli occhi”. Un po’ come, e il lettore perdoni o mi auguro piuttosto condivida queste parole con un cinofilo confesso, nessuno sa fare meglio del mio o di un qualunque altro cane.
E semplicemente, rispetto a me, rispetto a mia moglie, che pure, un po’ per deformazione professionale, un po’ per innata sensibilità, ha assai più di me una capacità di empatia che decisamente le invidio e che dovrebbe essere la prima qualità, insieme alla competenza della disciplina, di ogni docente comme il faut, Christian ogni giorno, a scuola, aveva le antenne. Tanto che più di una volta, mi racconta mia moglie, le è capitato di andare a scuola e sentirsi chiedere da lui, che di entrambi era e si sentiva ugualmente amico e a cui voleva un uguale bene, “Ersilia, che hai? Che è successo con Stefano?”. Perché lei magari ancora non se ne era resa conto, ma le antenne infallibili di Christian avevano captato come nell’elettricità dell’aria che c’era qualcosa che non andava, che dentro di lei covava qualche motivo di malumore.
Ma appunto, Christian aveva ed ha, anche ora che dalla sua camera, in groppa alla sua turbo-Ferrari, galoppa sulle onde-radio facendo il DJ per una radio locale, questa capacità di percezione extra-sensoriale, questa specie di vibrisse della mente e dell’anima o del cuore, as you like it, che nessuno di noi comuni “normali” può vantarsi o anche solo mai sperare di avere.
Perché quel che il dio toglie, il dio restituisce in altra forma, un po’ come, in una specie di gioco a somma zero, un cieco vede nel buio, sinapticamente, quello che noi vediamo nella luce. Come, in un’altra esperienza per me fortunata, ho potuto imparare un giorno a Roma, quando ho partecipato ad una iniziativa didattica dell’AIC (Associazione Italiana Ciechi) accompagnato da una ragazza non vedente (anche qui, come si vede, gli eufemismi più o meno ipocriti si sprecano). Il nostro percorso si snodava all’interno di una grande sala immersa nella tenebra più completa, che simulava le più banali situazioni della quotidianità, come camminare lungo una via, entrare in un portone, attraversare una strada al semaforo, pagare un caffè al bar e così via. Ebbene, lì dentro, il cieco, il deprivato sensoriale, la persona con disabilità, il diversamente abile, il disabile, insomma, l’handicappato, ero io.
Perché ogni diversità è una ricchezza, ed è la loro diversità che, per fortuna, da Christian a Domenico, Max, Sharon, Tommy, Nabila, Claudia, Tazio, Alessandro, Anna Paola, e con loro quella ragazza cieca di Roma, mi ha, nell’arco di questi ventiquattro anni di fortunata carriera, arricchito.
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