Yakamoz: il riflesso della luna turca a Berlino
di Federica Di Libero
Avevo finito il mio turno, finalmente! Otto ore correndo su e giù tra dodici panche di legno, tipo quelle delle sagre. Ad ogni tavolata potevano sedersi fino a dieci persone, oppure tre coppie. Il ristorante era sempre pieno e, come un tavolo pagava il conto e si alzava, ce n’era già pronto un altro che stava aspettando il turno per mangiare.
Era estate e faceva anche caldo. La gente era assetata e le zanzare inferocite. Il mio capo aveva la luna storta quel giorno ed io avevo fatto un incidente con la bicicletta arrivando al lavoro. Il cerchione era irrimediabilmente storto. Me la sarei dovuta fare a piedi a fianco della mia Graziella. Cos’altro poteva capitarmi ormai?
Erano quasi le due di notte, per strada c’era ancora tutta la gente seduta nei dehor dei bar. Festa, luci e musica riempivano il mondo intorno a me. Ero stanca e non mi sentivo minimamente attratta da tutto quel frastuono. Decisi che tornando mi sarei comprata una Radler, e sarei andata al Tempelhof.
Era così che passavamo le notti d’estate, con Moussah. Una notte di luna piena mi disse: “Vieni con me, ti porto in un posto!”. Arrivammo con le biciclette a quella che avevo ribattezzato “via che porta al mare”. Una strada che all’orizzonte era sconfinata. La chiamavo così perché mi ricordava la stessa strada che facevo prima, per andare da casa mia al mare, appunto. Ogni volta che mi sentivo malinconica la percorrevo e se chiudevo gli occhi potevo quasi sentire i profumi e i rumori di cui avevo nostalgia.
I cancelli dell’aeroporto erano chiusi dal tramonto, ormai. I guardiani cominciavano al calar del sole a dire ai ragazzi di iniziare ad avviarsi verso l’uscita. Poi, col buio, si avvicinavano con le torce ai gruppetti più temerari e li accompagnavano fuori, ad uno ad uno, e l’aeroporto diventava di nuovo una distesa deserta.
Moussah appoggiò la bicicletta alla rete, prese la mia e la legò insieme alla sua, poi mi sussurrò: “Conosco un passaggio!”. Camminammo per un paio di minuti, finché arrivammo a un palo dove la rete era staccata. Moussah la scostò leggermente e mi invitò a passare. A quattro zampe mi infilai nel piccolo varco e lui fece lo stesso. Lo seguii senza dire nulla e mi misi al suo fianco, quando si mise a sedere su una collinetta del prato.
Di fronte a noi l’aeroporto, con i suoi hangar abbandonati e i suoi radar disorientati. La luna illuminava tutto, era grandissima di fronte a noi.
“Chiudi gli occhi” mi disse “lo vedi il mare?”.
Sorrisi, pensando che il mare mi mancava, mi mancava il suo profumo, il suo rumore inquieto delle notti di tempesta, il suo enorme silenzio nella calma piatta.
“Questo si chiama Yakamoz” continuò lui “è il nome che diamo in Turchia al riflesso della luna sull’acqua. Non esiste un’altra parola in nessun’altra lingua, per dirlo”.
Da quel momento decisi che quella sarebbe stata una delle parole più belle e più romantiche del mondo, almeno per me.