Unconventional Berlin Diary: la mia vita a Friedrichshain

Friedrichshain è il mio distretto e il mio quartiere mescola il razionalismo socialista con ambizioni residenziali e sprazzi anarchici di colore locale. Ed è rumoroso, ma solo da qualche tempo e per la precisione da quando si è scatenata la “triade”. La triade è una combinazione di fattori altamente ansiogeni che mi rendono difficile lavorare e in generale fare qualunque altra cosa a parte sbuffare alla finestra con fare minaccioso, sperando di intimorire qualcuno.
Un tempo la zona era relativamente tranquilla, al netto degli scontri tra polizia e squatter a Rigaer Straße.
Da un paio di settimane, però, le cose sono cambiate e i miei nervi già scossi subiscono l’assalto di:

1) sirene della polizia, dei vigili del fuoco o dell’ambulanza, pressochè costantemente, al punto che avrei pensato di essere la vicina di El Chapo, se non lo avessero già arrestato nel 2016
2) cani che abbaiano, legati davanti al supermercato sotto casa. Non capiscono mai che i loro amici umani torneranno a prenderli, dopo aver acquistato il solito stock di cremine aromatizzate, bevande zuccherate e pastinaca.
3) bambini che urlano come degli ossessi. La cosa mi ha stupito in modo particolare perché, a parte gli Unni ispano-tedeschi del piano di sopra, che hanno devastato la mia esistenza e quella dei miei coinquilini per più di un anno, i bambini del circondario si sono sempre caratterizzati per la loro relativa tranquillità. Cosa sta succedendo all’infanzia paciosa a cui mi ero così soavemente abituata?

Paradossalmente, al momento l’area più tranquilla è proprio quella degli squat. Ci sono passata qualche giorno fa, avevo voglia di fare una passeggiata in solitudine. Era tutto molto colorato e molto tranquillo e anche se penso di avere in comune con molti dei residenti le stesse cose che posso avere in comune con un abete di Cefalonia, l’atmosfera mi ha rilassata.
Alla finestra di una casa piena di scritte, rigorosamente contro i padroni e i governi, due ragazzi chiacchieravano con i gomiti sul davanzale. Davanti a un portone due ragazze fumavano tranquille, una delle due dondolava una gamba nuda. Ho proseguito per cinque minuti, sentendomi quasi bene. Il tramonto era discreto, la luce calda, il vento lieve e capace di evocare memorie lontane, rendendole vicinissime. O forse era solo la mia mente, che galoppava avanti e indietro, tra quello che è stato e quello che sarà.
Mi sembrava di sentire le voci dei bambini che giocavano a pallone nel campetto vicino alla chiesa di san Gerardo, nella mia città natale. Mi ricordo che allora avevo l’impressione che la luce fosse accecante, anche in inverno. Invece ero vicino a Proskauer Straße, a fine luglio, il sole scaldava senza bruciare e non c’erano bambini in giro, ma un vecchio punk con il viso pieno di piercing mi ha quasi sorriso.

Mi ricordo che qualche tempo fa, su quella stessa strada, mi sono trovata in mezzo a uno dei tentativi di sgombero del Rigaer 94. Raccoglievo materiale, facevo foto e tentavo di intervistare qualcuno. Una ragazza che abitava nello squat immediatamente vicino, mi ha indirizzata verso una spokesperson del movimento, una persona di genere sessuale indefinito e scarificata sulle braccia e che ci ha tenuto a spiegarmi che non dovevo chiamare la sua amica “ragazza” e neanche “ragazzo”.
“Guarda che sono genderfluid anch’io, ma non so se hai notato che stanno sgombrando il palazzo accanto” ho pensato. “Va bene, ma dimmi che sta succedendo” ho detto.
Il punto è che per quanto vogliamo sforzarci di far progredire la società attraverso nuovi codici linguistici e nuovi slogan, alla fine ci troviamo sempre a discutere di minuzie percepite come fondamentali e a dividerci sugli asterischi. E se non stiamo attenti rischiamo di diventare, per questo, massimalisti e reazionari.
Mi sono laureata con una tesi in teoria dell’interpretazione, so quanto il linguaggio sia utile ma indicativo e so anche quanto sia capace di ribellarsi ai suoi stessi “creatori”. Il linguaggio è il nostro personale Lucifero, il cavallo di Troia del mondo che creiamo attraverso le definizioni.

Ok, rischio di diventare pedante, riavvolgo il nastro e lo faccio ripartire dalla mia passeggiata nei pressi di Proskauer Straße.
Quella sera ho scritto un racconto e l’ho fatto per un’amica speciale. Forse non sarebbe mai successo, se non me lo avesse chiesto lei. Può sembrare strano, perché, tra le altre cose, scrivo per vivere, ma mi sono sempre vergognata dei miei racconti. Li ho sempre scritti e poi distrutti o nascosti.
Oltretutto trovo che il mondo sia già saturo di aspiranti scrittori e troppo povero di validi professionisti e a Berlino la proporzione tra le due categorie è quasi ridicola. Una volta ho conosciuto un capomastro e stavo quasi per chiedergli l’autografo.
Ad ogni modo scrivere il racconto mi ha fatto un effetto strano, ma non mi è dispiaciuto.
Ho proposto alla mia amica di andare a Hidensee, sul mar Baltico. Si estende per appena 17 km ed è nota per essere stata il rifugio di diversi artisti del XX secolo, che non riuscivano a trovare o ritrovare l’ispirazione. Stiamo attraversando entrambe un periodo difficile e credo che il faro, le case dai tetti di paglia e i rifugi dei pescatori potrebbero farci bene.
“Ti prometto che un giorno ci andremo” mi ha risposto.
E forse un giorno lo faremo.

Machete

Machete vive a Berlino dal 2013.

Ama anche la musica, il cinema, la letteratura e la serotonina.

A otto anni sperava che prima o poi qualcuno avrebbe inventato una pillola contro la morte. Un po’ lo spera ancora.