Lo “Schreibaby”, il bambino dal pianto inconsolabile. Come affrontare il problema

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di Cinzia Colazzo

Sebbene vengano al mondo bambini dalla notte dei tempi, sotto molti aspetti il rapporto genitori-figli rimane un campo minato da pressioni, pregiudizi e tabù. Tipico esempio è il reclamizzato èpos della madre perfetta dalle performance impeccabili.

L’arrivo di un figlio e prima ancora l’instaurarsi di una gravidanza aprono la strada a eventi incontrollabili. Ai genitori è richiesto di dimostrarsi competenti. Nonostante le migliori intenzioni, non sempre si riesce a trovare una soluzione per aiutare il bambino, sia durante il parto sia nei primi mesi di vita del neonato. Particolarmente critica è la situazione dei bambini dal pianto inconsolabile.

Secondo la definizione corrente, è riconosciuto come “Schreibaby” il neonato che per un tempo superiore alle tre settimane piange almeno tre giorni alla settimana per almeno tre ore al giorno. Accanto ai parametri quantitativi ciò che ha più peso è il livello emozionale di madre e bambino. Il pianto diventa eccessivo quando è espressione di un esaurimento delle risorse fisiche ed emotive. Esso esprime un malessere che non trova quiete e che impedisce al neonato di percepire la soluzione o di instaurare un vero contatto con i genitori. Questi fanno esperienza di frustrazione, senso di fallimento e impotenza.

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La definizione di “Schreibaby” è relativamente recente e si deve allo sviluppo della ricerca sui bambini, sui neonati e sull’attaccamento. Sino agli anni 60 del secolo scorso si riteneva che i neonati fossero incapaci di sentimenti, tanto che venivano operati senza anestesia.
Il bambino dal pianto inconsolabile sembra avere difficoltà con l’avvio della vita extrauterina. L’impressione è di una frustrazione, una sofferenza, fisica o dell’anima, che non trova un oggetto consolatorio o una pausa dal disagio.
Le cause di questo stato sembrano essere connesse a fattori di stress durante la gravidanza, durante il parto o nelle prime settimane dopo la nascita. I sentimenti della madre hanno una forte influenza sul bambino, già durante l’attesa. Paura, insicurezza economica, isolamento sociale, povertà di contatti, conflitti relazionali e decisionali, minacce di aborto o di parti prematuri sono carichi emotivi da non sottovalutare. Le domande “È un bambino voluto?, È il momento giusto?” possono avere effetti sullo sviluppo fisico del bambino. Contrazioni ripetute dell’utero causate da stress possono trasmettere al feto il messaggio che non ci sia sufficiente posto per lui.

Il parto ha la potenzialità di evento traumatico, sia per la donna che per il bambino non nato. Una forza opera sui corpi al di là della possibilità di controllo e richiede a entrambi un travaglio nel compiere il passaggio. L’uso di forcipe o ventosa e altre manovre operative pesanti, sino al cesareo d’emergenza, sottopongono donna e bambino a un logoramento fisico ed emotivo. Nella situazione ideale, donna e bambino vivono il parto come un’esperienza forte che segna con successo la fine dell’attesa, l’incontro e l’inizio di una conoscenza profonda.
Non di rado, però, il parto è percepito come un’esperienza violenta. Alla nascita, nel caso ottimale il bambino è appoggiato sul corpo della madre ancora legato al cordone e poi attaccato subito al seno, perché possa sviluppare dai primi istanti un legame rassicurante e avvertire una consolazione dopo il passaggio.
In alcuni casi, però, il bonding è disturbato da una separazione forzata e l’instaurazione del legame madre-figlio viene ritardata. Il neonato non riceve calore e piange nel vuoto.

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Dopo il parto è possibile che la donna avverta una profonda tristezza sino alla depressione e che quindi non sia in grado di occuparsi appieno delle esigenze del neonato. L’inizio della maternità contiene un enorme potenziale di crisi: perdita della precedente identità, assunzione del ruolo materno, confronto fra le aspettative e la realtà, misurazione con eventi imprevisti, percezione delle pressioni esterne, incarnazione della maternità in un’esperienza fortemente corporea. A questo si sommano la mancanza di sonno, il cambiamento del rapporto con il partner, eventuali delusioni per aspettative disattese, dubbi sul proprio Io-madre.
Tutti questi fattori costituiscono un inizio difficile della vita extrauterina e possono determinare una sfiducia di base e una frustrazione inconsolabile nel neonato. Il pianto viene gettato verso l’esterno e il neonato sfibra il proprio sé nucleare, non trovando nel corpo e nel sonno quiete.

Il pianto del bambino rientra quindi anche nella sintomatologia dell’esaurimento della madre o di problemi familiari.
Il logoramento operato dal pianto può portare a episodi di aggressione, fantasie di violenza o a un allontanamento dei genitori dal neonato. Per gli adulti responsabili le grida del bambino sono come un’accusa contro di loro: sorgono sensi di colpa e vergogna, soprattutto in presenza di altri genitori o familiari.

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Per sostenere i genitori in tali difficili situazioni, che laddove manchi aiuto esterno producono circoli viziosi critici, nel 1993 è stato fondato un centro di aiuto alle famiglie, in parte finanziato dal Senat, e ospitato all’interno della Ufa-Fabrik a Berlino Tempelhof, Viktoriastrasse  10-18.

Chiedo a Maria Sarfo e Paula Diederichs, responsabili del centro Schreibabyambulanz, Nachbarschafts- und Selbsthilfezentrum, se il fenomeno “Schreibaby” sia tipico dei nostri tempi.
In effetti nei paesi industrializzati, dove si è affermato il modello della famiglia mononucleare, i genitori non hanno la possibilità di accumulare esperienze precedenti con neonati. Spesso le madri sono lasciate completamente da sole ad occuparsi della cura e dell’educazione dei figli, rischiando il sovraccarico. Non a caso come critica sintetica della situazione viene citato il detto africano: “Per educare un figlio, ci vuole un intero villaggio”.
Il fenomeno dei bambini dal pianto inconsolabile è quasi sconosciuto nei Paesi non industrializzati, dove l’enorme responsabilità della cura e dell’educazione dei bambini è distribuita su più spalle.

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Cosa è possibile fare dunque per aiutare i bambini che non trovano pace?
Una volta che sono stati esclusi cause organiche e problemi di salute, i genitori devono innanzitutto essere aiutati a riflettere sulla situazione e a diventare consapevoli dei fattori di stress presenti. Sarà quindi possibile tracciare una mappa dell’intervento di amici, esperti o aggiustamenti che possano ridurli. Il sostegno di altre persone ha l’effetto di inserire dei piccoli eventi di successo nel rapporto con il bambino, che a loro volta incoraggiano la fiducia dei genitori e riaprono l’accesso all’intuizione. Nel momento in cui si riesce a reagire in modo positivo e idoneo al pianto del bambino, le tensioni cominciano ad allentarsi.

Anche permettere ai genitori di parlare apertamente dei propri sentimenti, della vergogna, delle fantasie di violenza avvia già un alleggerimento del carico. La priorità è evitare che si arrivi a un’aggressione sul bambino. Per questo sono previsti interventi e attivazione di risorse, dall’aiuto professionale all’assistenza nel fare la spesa o le faccende domestiche.

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In seconda battuta presso il centro Schreibabyambulanz vengono offerte sedute di terapia sul corpo come aiuto per elaborare le memorie traumatiche del bambino, per sciogliere blocchi e per riportare in equilibrio tensione e rilassamento. I genitori imparano a massaggiare il bambino e apprendono competenze che aumentano la fiducia in sé. Lo scopo è riattivare l’autoregolazione del bambino che,dopo aver lanciato il pianto-segnale e aver ricevuto risposta dall’adulto, trova pace.

Per Maria Sarfo e Paula Diederichs è fondamentale che la politica abbia come focus il sostegno alle giovani famiglie e che i genitori si lascino aiutare prima possibile. Secondo ricerche (che qui non citiamo) i neonati con sindrome del pianto inconsolabile anche da grandi evidenziano disturbi del comportamento. In alcuni casi essi sembrano non riuscire a sviluppare strategie di coping: hanno difficoltà a intercettare e interpretare i propri bisogni e quindi a trovare nell’ambiente o in se stessi una soluzione alla frustrazione.
In questi casi è importante che la madre impari a verbalizzare per il figlio: “sei stanco”, “ora ci stendiamo, così il corpo si riposa”, oppure “mi sembri triste, qualcosa ti ha infastidito a scuola?”. Attraverso la verbalizzazione la madre insegna al bambino a decifrare i sentimenti, a esprimere i bisogni e ad organizzarli per trovare soluzioni appropriate.

Decisivo è quindi che i genitori superino la vergogna o il senso d’impotenza e che si rivolgano a esperti e amici, per attivare le risorse che, per fortuna, la sensibilità di alcuni pionieri ha reso disponibili a tutti.