Lavoro nero a Berlino: conoscere i propri diritti
di Jacopo Riccardo Marghinotti
Condizioni di lavoro opache sono alla base del lavoro nero in gastronomia e renderle chiare è una causa che la comunità italiana a Berlino dovrebbe far propria. Solo uno sforzo congiunto è in grado di condurci fuori dal sistema d’illegalità che le diverse analisi sulla realtà migratoria degli italiani che abitano la capitale tedesca testimoniano. Studiare il fenomeno conduce inoltre a un’interessante conclusione: il lavoro nero si sconfigge innanzitutto imparando a scrivere.
Gli immigrati italiani cui le vicissitudini della vita non hanno infuso un tedesco fluente, oggi sono con molta probabilità impiegati nella ristorazione e con probabilità ancora maggiore stanno aspettando il proprio contratto di lavoro, dicono.
Le risposte che i datori offrono a eventuali sollecitazioni sono le più svariate. Ne cito alcune delle più famose: “Il tuo contratto di lavoro sta arrivando”, “Il contratto di lavoro non ti serve”, “Il contratto di lavoro in Germania è orale” o “la busta paga sostituisce il contratto”.
Questo articolo vuole spiegare in maniera semplice cosa preveda la legge e chiarire il punto decisivo nella lotta all’illegalità nel mondo della ristorazione: la chiarezza delle condizioni di lavoro.
Per questo non si rivolge solo ai dipendenti, che troppo spesso non si informano a sufficienza e neppure solo ai datori di lavoro i quali, come sosterrò, sono a mio avviso i principali beneficiari di questo sistema.
Scrivo nella speranza che la comunità italiana ospite a Berlino faccia propria una battaglia di civiltà, con particolare riferimento alle organizzazioni attive sul territorio e ai mezzi d’informazione. Per questo ringrazio “Il Mitte” e la sua caporedattrice Lucia Conti per essere gli unici a dedicare spazio in maniera coerente a un problema sociale tanto vergognosamente noto quanto trascurato.
Lavoro nero: come orientarsi e cosa sapere
In questo articolo si dimostrerà una tesi semplice, resa ancora più semplice dopo uno studio attento, concepito fin dal principio per unire anche le sensibilità più diverse a conseguire un obbiettivo chiaro: mettere per iscritto le condizioni di lavoro. Sosterrò che alla radice del nero in gastronomia e di tutte le conseguenze a esso collegate – precariato, perdita delle tutele sociali, impedimento del processo di integrazione – risiedono condizioni di lavoro poco chiare. Dimostrerò innanzitutto che mettere per iscritto le condizioni di lavoro è obbligatorio per legge e che rispettare quest’obbligo è il primo gesto di rispetto che il datore di lavoro deve al suo dipendente.
Il mio appello è rivolto certamente anche ai singoli ma soprattutto ai gruppi attivi sul territorio affinché pongano il tema della scrittura delle condizioni di lavoro come loro priorità: lo dica chiaramente il comitato degli italiani all’estero, lo spieghi convintamente il patronato ai dipendenti, lo promuovano ognuno dalla propria prospettiva i partiti politici e soprattutto se ne facciano carico tutte le associazioni di ristoratori, e se non vorranno farlo solo perché è giusto in sé, lo facciano almeno perché nulla di ragionevole si può controbattere a una richiesta così ovvia. Lo facciano almeno perché così prescrive la legge.
Il problema è di sistema e se abbiamo imparato qualcosa dal recente passato politico è giusto almeno tentare la ricerca di una soluzione civile al problema: non fare a meno della legge quindi, ma agire legalmente prima che venga sentenziato da un giudice.
Il contratto di lavoro in teoria: libertà di forma, rigidità di contenuti
La confusione nei rapporti di lavoro ha la sua origine precisa nelle opinioni discordanti sulla natura del contratto di lavoro. Diciamo quindi in maniera chiara e inequivocabile che in Germania un accordo di lavoro stipulato oralmente è perfettamente valido. Non è infatti la forma del contratto, se sia cioè scritto o orale, a determinarne la validità ma il suo contenuto, ossia il tipo di accordo che le due parti hanno raggiunto al termine del colloquio di lavoro.
Con la stessa chiarezza si deve però anche sempre aggiungere che nel 1995 il parlamento federale tedesco ha introdotto una legge, la Nachweisgesetz (grossomodo “legge sulla documentazione”), con lo scopo di garantire la chiarezza dei rapporti di lavoro stipulati oralmente. La legge spiega al paragrafo 2 quali siano quei 10 punti che devono essere necessariamente trattati e obbliga il datore di lavoro a consegnare al proprio dipendente un Nachweis der für ein Arbeitsverhältnis geltenden wesentlichen Bedingunen, cui, non me ne vorrete, mi riferirò in futuro chiamandolo semplicemente documento riassuntivo.
Il titolare deve formulare tale documento riassuntivo per iscritto, apporre data e firma e deve consegnarlo al dipendente neoassunto entro un mese dall’inizio del rapporto di lavoro.
È fondamentale ricordare che questo è un obbligo del titolare: il documento scritto non deve essere richiesto dal dipendente per essere rilasciato, deve giungergli per iniziativa propria del titolare il quale è vincolato a farlo da un obbligo di documentazione specificato nella legge, il Nachweispflicht.
La conclusione che dobbiamo trarre è che qualsiasi dipendente impiegato in Germania, trascorso un mese dall’inizio del rapporto di lavoro, deve possedere un contratto scritto o il documento riassuntivo dell’accordo stipulato oralmente.
Abbiamo visto dunque come un contratto stipulato oralmente sia perfettamente valido e come a un tale contratto debba sempre seguire un documento riassuntivo firmato e datato. Poniamoci allora due domande: 1) Perché non scrivere direttamente un contratto invece del documento riassuntivo? E 2) Come mai nessun dipendente dispone né dell’uno e né dell’altro?
Nel prossimo paragrafo suggeriremo che la risposta a entrambe le domande è la stessa.
Il contratto in pratica: Parola del capo!
Ho lavorato in tre ristoranti: non ho mai avuto né un contratto né un documento riassuntivo. Lo stesso valeva per gli altri dipendenti in quegli esercizi ossia circa 60 persone. Se estendo il campione ai resoconti di amici e conoscenti le stime non variano. Ricordo che l’obbiettivo della mia ricerca è limitato a locali gestiti da italiani.
Anche in assenza di studi specifici sulle le condizioni di lavoro degli italiani a Berlino, i numeri parlano di una maggior parte di connazionali non monitorabili e di una grande quantità di concittadini non iscritti all’Aire.
Emerge quindi che la mano d’opera disponibile sia molto abbondante, poco radicata, per lo più incerta sul da farsi e poco propensa ad opporsi per vie legali in situazioni di conflitto. Una popolazione più nomade che migrante.
Il motivo per il quale l’opacità favorisce il datore di lavoro è dovuto al fatto che, in caso di dispute sulle condizioni di lavoro, il datore di lavoro viene percepito dai dipendenti come se avesse l’ultima parola, in un ambiente che tendenzialmente rinuncia a ricorrere a vie legali.
Così si arriva al vero e proprio paradosso, al capovolgimento di quanto la legge tedesca e il buon senso prescrivono: si arriva cioè al fatto che quando un dipendente della gastronomia ha l’ardire di chiedere un contratto scritto, in realtà intende essere messo a conoscenza delle proprie condizioni di lavoro, poiché le ignora del tutto o in parte.
E in assenza del documento riassuntivo? Il concetto di “condizioni minime”
In teoria dopo un mese ogni dipendente deve avere qualcosa di scritto. Questo non avviene. E quindi, che succede?
Il contratto rimane valido, come abbiamo visto, ma è valido se le parti sono d’accordo sulle condizioni fondamentali. Sono però le due parti libere di accordarsi come vogliono? E cosa succede se al colloquio di lavoro si affrontano solo discorsi vaghi o se non vengono affrontati quei temi prescritti dalla legge sulla documentazione?
Facciamo un esempio celebre: ferie. Un dipendente che non l’ha mai fatto chiede al proprio titolare di calcolare quante ferie gli spettano e gli propone il periodo in cui intende sfruttarle. Il titolare, nello sbigottimento generale, non ha argomenti razionali con cui opporsi. Lo stesso discorso vale per chi si opponesse a un licenziamento ingiustificato o per chi pretendesse quanto gli spetta in seguito a un’assenza da lavoro per malattia.
Esistono infatti delle “condizioni minime” sotto le quali un datore di lavoro non ha il potere di contrattare e un dipendente non ha il diritto di accettare. Ad esempio 24 giorni di ferie l’anno calcolati su una settimana lavorativa di 6 giorni. Queste condizioni esistono per tutelare i dipendenti in situazioni nelle quali i datori si trovino in una condizione di vantaggio contrattuale. Situazioni cioè come quella di cui siamo testimoni oggi a Berlino.
Già dal colloquio di lavoro infatti molti datori mettono in chiaro che le ferie in quell’esercizio non verranno pagate. Nel mio caso il tema non venne affrontato, io non sapevo di averne diritto e non ne ho mai ricevute.
Altri ancora dicono che un certo numero di “ferie” sono previste, ma per ferie intendono piuttosto giorni di permesso, che naturalmente non verranno pagati.
Esempi ancora più inquietanti riguardano il mancato pagamento dei giorni di malattia o l’infrazione dei termini del licenziamento, per tacere poi del riconoscimento della maternità: tutele fondamentali lasciate all’esclusivo arbitrio del titolare.
È mia precisa opinione che l’opposizione a un sistema tanto radicato non possa essere lasciata all’iniziativa del singolo dipendente. Sostenere questo significa permettere che tale sistema prosperi e venga accettato come dato di fatto. L’onere di offrire il documento riassuntivo e con esso condizioni chiare di lavoro spetta unicamente al datore di lavoro. Per la stessa ragione, ovunque manchino quei documenti riassuntivi, lì inequivocabilmente si trova un datore di lavoro che infrange un obbligo e la confusione sulle condizioni di lavoro sono da inputare esclusivamente a lui.
La penna, la spada
Concludo ripetendo quanto affermato all’inizio: occorre che tutte le organizzazioni che si richiamano al rispetto della legalità o all’idea, nobile quando non venga fraintesa, di eccellenza italiana, costruiscano un network autenticamente legalitario o ammettano di volersi rassegnare allo stato delle cose.
Si attivino dunque i singoli insieme alle strutture che da decenni conoscono il territorio: il ComItEs, il Patronato, i partiti e i movimenti politici, le associazioni di ristoratori e i mezzi d’informazione recepiscano con urgenza e ognuno secondo le rispettive competenze una richiesta che, anche al netto delle opinioni personali, credo di aver motivato a sufficienza: vale a dire che ai dipendenti venga consegnato almeno il documento riassuntivo, come suggerisce il buon senso, come impone la legge.
In assenza di un consenso comunitario i datori di lavoro continueranno a sfruttare e forse a promuovere un’ignoranza diffusa, le cui conseguenze presto o tardi ricadranno sulla comunità. Credere che le proprie scelte non abbiano influsso sulla vita degli altri è un’illusione che non possiamo più permetterci di cullare.
L’eccellenza italiana impari innanzitutto a scrivere.
(Se vi è piaciuto l’articolo può interessarvi anche Nella vecchia trattoria, ovvvero quell’antica filastrocca sul lavoro nero che nessuno canta mai fino alla fine, dello stesso autore)