di Pasquale Episcopo
Nella memoria collettiva di un popolo ci sono date indelebili. Sono scolpite nel ricordo degli individui di un’intera nazione. Così è per il 23 maggio e il 19 luglio 1992. Capaci e via D’Amelio, le stragi in cui morirono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono un triste capitolo della storia recente d’Italia. Furono atti di guerra sferrati con deliberata violenza dalla mafia siciliana, da Cosa Nostra. Fu un colpo al cuore dello Stato, uno dei momenti più bui e drammatici nella storia della Repubblica. Sono passati 25 anni e il ricordo è intatto. Ci è rimasto addosso come la cicatrice di una ferita profonda. Oggi sappiamo chi furono i responsabili e i mandanti di quelle stragi, molti dei quali sono stati assicurati alla giustizia. Sappiamo tuttavia che la mafia non è stata sconfitta. Sappiamo che non bisogna abbassare la guardia e che di mafia bisogna parlare. In Italia, e anche all’estero.
Il 24 giugno se n’è parlato a Monaco, nel contesto rappresentato da una scuola di lingue, lo Sprachen und Dolmetscher Institut, in una manifestazione organizzata dal Circolo Cento Fiori, associazione culturale molto attiva nella capitale bavarese. Sono intervenuti Gian Carlo Caselli, Procuratore capo della Repubblica a Palermo dal 1993 al 1999, e Margherita Bettoni, attivista antimafia ad Amburgo, scrittrice e giornalista per CORRECT!V, testata indipendente nonprofit. Gli interventi sono stati moderati da Stefan Ulrich, ex corrispondente della Süddeutsche Zeitung dall’Italia.
Di Gian Carlo Caselli, personaggio di alto profilo e magistrato senza peli sulla lingua, non c’è molto da dire che non sia stato già detto o scritto. Al suo impegno si devono molti dei risultati ottenuti nella lotta alla mafia negli anni successivi alle due stragi. Caselli ha ricordato la storia del pool antimafia, voluto da Rocco Chinnici e potenziato da Antonino Caponnetto, la cui attività culminò, nel 1986, a Palermo, nel cosiddetto maxiprocesso che ebbe circa 500 imputati. Ha parlato del suo incarico di procuratore capo, dello smarrimento, delle macerie e dei veleni che trovò in procura, degli sforzi per ricostruire una squadra, per unire e organizzare.
Ha poi risposto alle domande del sig. Ulrich, molte delle quali finalizzate ad evidenziare le differenze tra Italia e Germania e a mettere in luce quali strumenti aveva e ha l’Italia, e che mancano alla Germania, per combattere il fenomeno mafioso. Caselli ha subito menzionato l’articolo 416bis del codice penale (Associazione di tipo mafioso, ndr) una legge di cui molti altri Paesi, Germania compresa, non dispongono.
“È vero, il nostro è il Paese della mafia, ma è anche il paese dell’antimafia. Lo dimostrano leggi come il 416bis, a cui Falcone mise mano dopo gli omicidi di Pio La Torre e Carlo Alberto dalla Chiesa (entrambi uccisi nel 1982, ndr).
Caselli ha quindi continuato, dicendo “fu proprio Falcone ad affermare che prima del 416bis combattere la mafia era come pretendere di fermare un carro armato con una cerbottana. Soltanto successivamente è stata costruita l’enorme banca dati della procura antimafia. È a Falcone che si deve la creazione della DIA, Direzione Investigativa Antimafia, è lui che ha scritto la legge sui pentiti, è lui che ha impostato quella sul trattamento carcerario, che avrebbe portato all’art. 41bis (comunemente noto come carcere duro, ndr)”.
Falcone e Borsellino erano ben consapevoli della necessità di promuovere, nella lotta al crimine organizzato, la cooperazione transnazionale. Dopo la loro morte fu concepita un’apposita “Convenzione” che doveva servire come base per una legislazione internazionale che, ha aggiunto Caselli, “mutuando l’esperienza italiana, doveva estendere agli altri Paesi le misure già adottare con successo in Italia”. Tra esse l’adozione del reato associativo, la confisca preventiva dei beni, l’attenuazione delle pene per i pentiti, la protezione per i collaboratori di giustizia, la deroga del segreto bancario. “Purtroppo l’introduzione di tali leggi nei sistemi giuridici stranieri a imitazione, lo dico con orgoglio, di quelle italiane, è rimasta nel libro dei sogni”.
Della mafia in Germania ha parlato poi Margherita Bettoni. “In Germania della mafia si ha ancora un’idea molto romantica dovuta alle varie serie televisive. L’immagine del mafioso che indossa un vestito di Armani è difficile da sradicare dalla mentalità tedesca. Se la società civile non avverte il problema è difficile che la politica lo metta in cima alle sue priorità. In Germania ci sono 550 cosiddetti aktenkundigen Mafiosen, mafiosi noti alla polizia e già agli atti degli investigatori. Quando parliamo con gli ispettori di polizia ci vien detto che a questo numero si può aggiungere tranquillamente uno zero. Quando sono arrivata qui mi sono resa conto che la percezione della mafia è diversa, che nel complesso il problema deve essere ancora affrontato. Per questo è importante impegnarsi attivamente”.
In Margherita Bettoni l’interesse per la mafia è iniziato quando frequentava il liceo, dopo un incontro avvenuto nella sua scuola con Rita Borsellino, sorella del giudice ucciso. A lei Stefan Ulrich ha chiesto se è vero che quando la mafia uccide, come ha fatto a Duisburg, è un segno di debolezza. “La strage di Duisburg del 2007 è stato l’ultimo atto di una faida interna alla ’Ndrangheta calabrese. Rimasero uccisi sei italiani e subito dopo la ’Ndrangheta impose la pace alle famiglie in conflitto. I magistrati capirono che la pace era stata imposta dal vertice perché i familiari di alcune delle vittime si presentarono al funerale vestiti di bianco. La strage di Duisburg è stato il più grande errore della ’Ndrangheta perché è stato allora che la Germania si è resa conto di avere la mafia in casa”.
Ma la mafia in Germania è presente fin dagli anni ’70. È arrivata con i Gastarbeiter. Solo poche settimane prima della strage di via D’Amelio, Paolo Borsellino era in Germania. Alcuni suoi collaboratori avevano informato la polizia tedesca della pericolosità di alcuni mafiosi presenti sul territorio tedesco, ma le loro informazioni furono ignorate.
“Furono ignorate anche perché il reato di associazione mafiosa non esiste. In Germania è impossibile fare intercettazioni perché questo strumento, che nella ex-DDR è stato utilizzato in modo sistematico per anni, evocherebbe una forte reazione da parte dei cittadini. Reazione legittima, tuttavia, in caso di associazione mafiosa non poter utilizzare le intercettazioni è penalizzante. Fortunatamente, per quanto riguarda l’impossibilità di attuare sequestri preventivi, c’è una novità rappresentata dalla nuova legge sulla confisca dei beni approvata dal parlamento tedesco nell’aprile scorso ed entrata in vigore il 1 luglio. Questa legge contiene una modifica importante, rappresentata dall’inversione dell’onere della prova, che permetterà la confisca dei beni di origine sospetta anche senza prove certe sulla loro provenienza illecita”.
In conclusione Caselli ha elencato la lista delle attività della mafia in tutto il mondo. È una lista che fa spavento: riciclaggio; corruzione; frodi; pirateria; cyber crimine; predazione delle risorse naturali; ecomafie; gioco d’azzardo; prostituzione; traffico di tabacco, droga, armi, organi umani; traffico di esseri umani; sfruttamento dell’immigrazione illegale e caporalato. In pratica, ha sottolineato Caselli, si tratta del “saccheggio globale delle risorse del pianeta”. Alcuni di questi crimini esistono solo da pochi anni ed il vero problema di oggi è che la mafia è cambiata, adattandosi ai tempi. “La capacità di adattamento è nel loro DNA. Oggi i mafiosi preferiscono non farsi notare, sparano sempre, ma la violenza è meno esibita, i loro gesti meno eclatanti. È una mafia silente, che veste in doppio petto e gestisce Holding, diversa da quella per cui è stato scritto il 416bis”.
È stata una manifestazione riuscita, che sarà ricordata per la partecipazione del pubblico e per le emozioni che ha suscitato, in particolare quelle suscitate dalle parole di Margherita Bettoni, nostra giovane connazionale, vera rivelazione della serata. Per la sua lucida e pacata analisi del fenomeno mafioso, gli applausi maggiori li avuti lei.
A lei è andato il plauso dello stesso Caselli che ne è rimasto “suggestionato”. E non c’è lascito più concreto di quello testimoniato da persone come Margherita Bettoni, di quello impersonato da attivisti coraggiosi come lei.