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“Toni Erdmann”, di Maren Ade. Un film sul difficile rapporto tra un padre e una figlia

di Roberta Girau (Taxidrivers)

Toni Erdmann“, della regista tedesca Maren Ade è un ritratto di un difficile rapporto padre figlia in un mondo impersonale e votato all’esteriorità. Di Maren Ade abbiamo parlato proprio recentemente, in un articolo sull’ultimo festival di Cannes, che l’ha vista in giuria. Il film è da pochi giorni disponibile in dvd anche in Italia.

Per chi vive in Germania come noi, non è inconsueto trovarsi di fronte a famiglie con rapporti burrascosi tra genitori e figli. Ma da dove nasce questo attrito, è solo competizione o c’è dell’altro?
Ade nel suo film mette a fuoco il problema a modo suo e ne esce fuori una pellicola originale e coraggiosa.

Presentato in concorso al Festival di Cannes 2016 e recentemente uscito in dvd, “Toni Erdmann” è il ritratto di un difficile rapporto padre-figlia che oscilla tra il bisogno estremo di incontrarsi e l’incapacità di farlo.

Maren Ade, trentanovenne tedesca sia regista che sceneggiatrice dell’opera, dopo aver ricevuto l’Orso d’Argento a Berlino nel 2009 con il suo “Alle Anderen“, racconta di due anime sole. Sangue dello stesso sangue, ognuna nella sua fase di vita e a suo modo, lottano per gestire la solitudine affrontandola con stili di vita opposti ma, come si vedrà alla fine, nemmeno tanto distanti. Attraverso il gioco, il travestimento, lo scherzo lui e rinchiudendosi in un involucro di formalità, rigidità e totale assenza di umanità lei. In fin dei conti entrambi modi di interporre una distanza che li protegga tra loro e il mondo.

Padre e figlia sono interpretati egregiamente dai notevoli Sandra Huller e Peter Simonschek, già noti in Germania come attori teatrali. I due, nel tempo, man mano che lei è diventata adulta e forse complice la separazione dalla madre, si sono allontanati sempre di più sino a diventare due estranei, o probabilmente non sono mai stati abbastanza vicini.

Così “Toni Erdmann” diventa la finestra sulla quale si apre lo spiraglio di un’occasione che forse chiunque vorrebbe, arrivato a quel punto di apparente non ritorno, quella di ritrovarsi e scoprire che esiste ancora uno spazio in cui non si è così lontani, in cui quel legame ancestrale e innato in qualche modo è ancora potente, il configurarsi nello spazio e nel tempo di una dimensione in cui è ancora possibile.
Winfried (Peter Simonschek) è un uomo solo e triste; si è cucito addosso il personaggio dell’eterno burlone, che usa come unico strumento per relazionarsi con gli altri, lo scherzo, ma quando esce dal quel personaggio, peraltro la maggior parte delle volte per niente efficace, la tristezza è palese nei suoi occhi, nelle sue espressioni, nelle movenze e nel suo corpo dimesso, nelle poche scene in cui lo vediamo da solo, è come se si sgonfiasse e si abbandonasse a se stesso.
E anche quando si muove nel suo personaggio, è evidente la ricerca di reciprocità e il suo bisogno di vicinanza, ma lo è altrettanto l’inaccessibilità, dovuta alla sua incapacità a connettersi attraverso altri registri che non prevedano lo scherzo come unico mezzo. Così, gli altri non si fanno troppi problemi a mortificarlo o, quando gli va bene, a guardarlo con pietà.
È totalmente spaesato e fuori luogo nell’ambiente formale, teatro abituale di vita della figlia, nel quale decide di piombare all’improvviso per farle visita.
Ines (Sandra Huller) è una donna in carriera rigida, fredda, formalissima e inaccessibile, sorride per la prima volta quando deve, per compiacere i pezzi grossi con i quali vorrebbe concludere degli affari e in modo del tutto innaturale, strumentale.
C’è una totale devoluzione della sua individualità a favore del profitto e dei risultati che deve raggiungere la sua azienda, una totale rinuncia a se stessa; quando il padre le chiede come sta, se è felice, lei quasi indispettita cita parole come “divertimento, felicità, vita…” come se fossero termini di una lingua sconosciuta, persino la sua festa di compleanno ha quale unico scopo, come tutte le sue istanze, il finalizzare qualcosa dal punto di vista lavorativo; e anche ciò che si avvicina di più nella sua vita a quello che potrebbe essere definito un rapporto di coppia, non è altro che uno squallido gioco di potere e di controllo.
È grottesca e indicativa la sua lezione di comunicazione via Skype, nella quale il tutor le spiega che il motivo per cui ha la sensazione di perdere il controllo quando ascolta il suo interlocutore, è che lo sta ascoltando davvero, mentre dovrebbe essere costantemente concentrata sul messaggio che vuole trasmettere.
Sembra assurdo ma questa realtà è abbastanza sovrapponibile con quella che riguarda gran parte della attuale società occidentale e con i criteri di vita che vengono insegnati e perseguiti in modo del tutto impersonale per crearsi un’immagine vincente.

Toni Erdmann

Così, Maren Ade si muove oltre la dimensione più intima e familiare e apre lo sguardo dello spettatore a una visione un po’ più ampia riflettendo, per quanto non focalizzandosi esattamente su temi mai sentiti, sulla sempre maggiore sterilità e perdita di contatto con se stessi e con la propria essenza individuale e conseguente impossibilità a relazionarsi in maniera vera e spontanea con chiunque, di cui è pervaso il nostro mondo.
Ines è ancora più incapace del padre. Due inetti della comunicazione.
La prima parte della visita inattesa è a dir poco disastrosa.

Lei parla per due giorni con il padre tramite la sua assistente, continua a organizzare ogni istante della giornata come se lui non ci fosse e quando è lui a compiere ogni sforzo per adeguarsi ai suoi orari e cambiamenti repentini del tutto incuranti della sua presenza, lei non gli dà il minimo valore, anzi spesso li ignora vanificandoli. Quando è lui a provare a entrare nel suo mondo interessandosi nello specifico al suo lavoro, facendole delle domande, lei ne sembra infastidita, come se dovesse spiegare la fisica quantistica a un ragazzino stupido.
Anche quando il padre la sostiene in un momento di difficoltà in cui, nella conversazione durante una serata con un gruppo di uomini d’affari, emergono un maschilismo e un sarcasmo beceri che la sminuiscono in tutti i modi, riuscendo per una volta a gestire la situazione e alleggerendo l’atmosfera, lei sembra non rendersene conto o comunque non dargli la minima importanza, rimanendo profondamente a disagio, visibilmente non avvezza a scambi affettivi.

Non è ricettiva a nessuno dei suoi tentativi. Lui incassa ogni colpo e ci riprova, solo a un certo punto si spazientisce chiedendole esasperato se è veramente umana, per poi comunque chiederle scusa.
Lo rifiuta e lo svilisce sino a diventare apertamente sprezzante, sfogando su di lui la frustrazione di un’occasione lavorativa persa oltretutto per colpa esclusivamente sua, riuscendo finalmente a ottenere che lui se ne vada e la lasci sola alla sua vita in carriera del tutto priva di qualità, di qualsiasi inflessione emotiva o parvenza di umanità.
Ed è esattamente lì, dopo che lui se ne va, nella solitudine, proprio come il padre, che finalmente compare la sua umanità, un’immagine stracolma di pena, e vediamo che sotto quell’involucro apparentemente inespugnabile, ci sono una desolazione e una sofferenza interiori non così distanti da quelli del suo genitore, a testimonianza del fatto che così diversi non sono, solo hanno scelto di gestirla differentemente.
Ed è solo in quel momento che riusciamo per la prima volta a empatizzare con lei.

Così, l’elemento più bello e significativo, è dato da come la necessità di incontrarsi, di toccarsi, di accedere in qualche modo l’un l’altro, superi alla fine qualsiasi muro costruito col titanio, e sarà proprio l’aspetto che rende così diversi padre e figlia, quello che infastidisce tanto Ines, che rende suo padre ai suoi occhi un uomo ridicolo e poco stimabile, non all’altezza, il suo goffo scherzare e camuffarsi per far ridere, ciò che creerà la “giusta distanza”, quella che si può reggere, alla quale si può stare insieme senza farsi male, quella necessaria perché i due possano avvicinarsi.
Perché possa farsi strada il bisogno di condivisione e si possa smettere di aver paura di essere sé stessi, sarà necessaria paradossalmente una maschera, quella che trasforma Winfried in Toni Erdmann.
A quel punto si crea una sorta di complicità tra i due che porta addirittura lei a coinvolgerlo nel suo mondo e vediamo una serie di maldestri tentativi durante i quali padre e figlia si affannano cercandosi e respingendosi sino finalmente a ritrovarsi.
E quanto più Wilfried si traveste, quanto più copre di sé, tanto più riesce ad avvicinarsi alla figlia, fino ad arrivare alla bellissima scena che culmina nell’esito tanto agognato.
La messa in scena è in sintonia con la sterilità di una vita condotta all’insegna dell’esteriorità e a favore dell’impersonale che Maren Ade vuole denunciare. La regista tedesca sceglie una Bucarest che, a dispetto dei palazzi alti e dell’evidente proposito di uniformarsi con le realtà più moderne, appare, smorta, priva di colori e di linfa vitale propria.
Pur essendo forse eccessivi 162 minuti, e in particolare l’ultimo quarto d’ora non proprio necessario, anche il finale del film presenta degli aspetti pregevoli dal punto di vista del contenuto.
Un finale un po’ malinconico nel quale il messaggio sembra essere sconsolato, ed è Winfried a osservare come viviamo un tempo che scorre, che passa senza che riusciamo a valorizzarne i singoli istanti, perdendoceli.
“Nel momento stesso, non te ne accorgi…”
E infine, quasi a legittimarne la condivisione, avviene il passaggio della maschera da Wilfried a Ines, che finalmente indossa i denti finti del padre in un ultimo scambio particolarmente incisivo ed efficace.

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