Abortire e partorire a Berlino: una storia vera

abortire a Berlino
Testimonianza anonima raccolta da Cinzia Colazzo

Era seduto di fronte a me nel ristorantino Nepal Haus. Provavo imbarazzo ad essere guardata mentre infilzavo gli Okra Schoten e li portavo alla bocca. Neanch’io riuscivo a smettere di fissarlo. Ho pagato il conto e sono uscita con il cuore zoppo. Al semaforo l’ho visto venirmi dietro. Non sapevamo che dire. “Vuoi lasciarmi il tuo numero di telefono?”. Io avevo già visto quel viso, un pittore avrebbe usato tratti di roccia e smeraldo di mare: a me faceva pensare a un ricordo d’infanzia o a un’impronta di stirpe. Era come ritrovarlo.

Ci incontravamo di sera. Erano appuntamenti scherzosi e intensi. Compariva bellissimo e ben vestito, lanciando folgori di sicumera. Lui ascoltava canzoni anni ’60-80 del mio paese, di cui risuonava la casa paterna, io Wagner, che per la nuova generazione dev’essere una sorta di bestemmia nazionale. Mi diceva: Io ho un’anima italiana, tu tedesca.

Chi avrebbe mai detto che dopo un anno e mezzo mi sarei ritrovata in uno studio medico a cercare di capire perché da due mesi avevo continue nausee, un gonfiore scomodo e un senso di morte. Voglie di carciofi alle sette del mattino e di sugo al pomodoro alle sette di sera. La dottoressa mi dice, mentre mi spoglio: “Se ha preso la pillola del giorno dopo e il test di gravidanza era negativo, è sicuramente valido, anche se ha comprato il più economico da Rossmann”. Mi infila lo strumento ecografico e dice in un sussurro, come rivelando un segreto fra lei e la macchina: “Gravidanza. Dodicesima settimana“.

Mette l’ecografia con la forma umana in un cassetto. Al mio viso sbiancato dice: “Gliela do se deciderà di tenerlo, altrimenti è inutile tormentarsi con una immagine”.
E mi allunga un foglietto rosa con il numero di telefono del Gesundheitsamt della Urbanstrasse.
“Forse è già troppo tardi. Chiami oggi stesso”.
Per la legge tedesca, non si può abortire se non si è prima ricevuta una consulenza per “gravidanza conflittuale”. Dalla consulenza devono trascorrere tre giorni per riflettere e solo dopo ci si può sottoporre all’intervento. Se la gravidanza è precoce, sussiste l’opzione dell’aborto farmacologico, altrimenti l’interruzione si fa per “aspirazione”. Dopo la tredicesima settimana, in Germania abortire è illegale. In casi estremi alcuni si spingono sino in Olanda, dove è consentito abortire entro la ventiduesima settimana.

Esco con il mio fogliettino in mano e prendo un appuntamento.
All’incontro andiamo entrambi. Nessuno parla e la giovane consulente dà legittimazione al silenzio. Alla fine mi allunga la lista delle cliniche che praticano l’aborto e la ricevuta del nostro incontro, obbligatoria per il passo successivo. Ci congeda dichiarandosi disponibile a tutti i colloqui che desideriamo.

A casa non riesco a piangere, sul divano le lacrime scendono e si asciugano da sole.
Ricomincio in quei giorni a scrivere poesie. Mi tengo tutto chiuso dentro e al supermercato lascio andare lacrime invisibili in coda alla cassa. Questo racconto nei miei versi.

Il giorno dopo sono in biblioteca. Lui mi chiama per chiedermi se ho contattato le cliniche. Trasalendo mi ricordo di quel “dettaglio”. Dentro di me cercavo di far andare avanti la solita vita.
Sotto il porticato della biblioteca, le telefonate si fanno frenetiche. Nessuno ha posti liberi per i giorni successivi. Io sono all’inizio della dodicesima, mi resta una settimana e mezza. Chiamo anche gli ospedali. Alcuni praticano solo l’aborto terapeutico. Altri sono categorici: non c’è il tempo tecnico. Non so se provo terrore o sollievo. Infine una clinica di Lichtenberg mi dice di andare il giorno dopo per la visita preliminare obbligatoria: lunedì c’è un posto per l’operazione. Ma devo recarmi subito nell’ufficio dell’assicurazione medica per verificare se i costi sono coperti: altrimenti devo portare 500€ in contanti il giorno dell’operazione.
Chiamo la Krankenkasse. Il tetto è di circa 1150€ al mese di reddito; per ogni figlio è incrementato di 200€. Mi reco nell’ufficio provvista di certificazione dei redditi e contratto d’affitto e ottengo la copertura dei costi per l’aborto.

Venerdì ho la visita. Mi addentro in una Lichtenberg sconosciuta. Lasciando il vialone principale, in un’isola di squallore, fra un imbiss greco e un imbiss turco, davanti a un complesso commerciale tristissimo, trovo il “Centro di programmazione familiare“. Nell’atrio ci sono ragazze giovanissime, con il ventre ancora piatto, in attesa della visita. Alla reception mi accoglie un’impiegata con i vestiti sgargianti, la lunga treccia da figlia dei fiori e una spigliatezza da segretaria d’ostello.
L’ostetrica che mi visita parla a stento tedesco, sorride come se servisse cocktail e mi dice che l’operazione è cosa da niente. Per lunedì ne sono programmate quattordici. Tutto scivola con leggerezza, la donna viene sollevata da ogni paura o senso di colpa. La parte pesante è delegata alla carta. Mi dà fogli da compilare, liste di cose da portare, obblighi a cui adempiere. Slip di ricambio, assorbenti, un camicione, le ciabatte, aspettarsi le perdite. Non bere né mangiare niente sei ore prima dell’anestesia totale. Due ore prima, a casa, infilarsi un medicinale che prepara l’aborto. Pensarci bene prima di farlo, perché compromette la gravidanza definitivamente. Dopo l’operazione calcolare due ore. Firmare il consenso informato alle eventuali complicazioni. È vietato lasciare la clinica se non accompagnate. Scrivere nome e telefono dell’accompagnatore.

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Mi fa un’ecografia e “lo vedo” di nuovo. Lo avverto come un corpo estraneo, non posso sentirlo mio.
Quasi sulla porta l’ostetrica mi dice che siccome sono già alla dodicesima settimana, domenica la devo chiamare e fissare in qualche modo un incontro per la somministrazione di un medicinale che blocca l’accrescimento del feto. Comprendo che l’interruzione è qualcosa che la donna compie con le sue mani, inserendo questi due farmaci. L’operazione in sé è banale, mi rassicurano tutti. Si tratta di aspirare quel che resta.
Scopro che un’amica lo ha fatto ben due volte, avendo poi tre figli con lo stesso uomo, quando era più matura per accoglierli. Sembra proprio una cosa da niente. Altre donne però raccontano di una depressione che le ha abbattute per mesi, di un rimorso sottile che dura tutta la vita.

Domenica sono in campagna. C’è il sole, ma ho tanto freddo, tremo. Chiamo l’ostetrica solo una volta, lei non risponde e io ci metto una croce sopra.
Passeggiando per i campi parlo con la mia amica tedesca, la quale mi dice: “Qualsiasi cosa tu decida, è quella giusta“. Però mi accarezza la pancia e io sono confusa. Improvvisamente metto tutto in ordine: il fatto che sentissi lo stesso odore che avvertivo quando ero incinta del primo figlio; i dieci anni in cui ero vissuta sola, separata, con scarse amicizie occasionali e innocue dal punto di vista della riproduzione, vedendo crescere i miei figli al di fuori delle mie ali di chioccia; la sensazione di aver già conosciuto lui, il tedesco in carriera che ascoltava Adriano Celentano; il mio ventre freddo che cominciava a scaldarsi ora che avevo superato i quarant’anni.

Lunedì lui mi viene a prendere e ha il volto grigio di chi non ha dormito. Gli dico che ho disdetto. Oscilla fra irritazione e sollievo, comprende. Mi chiede però di fissare un secondo appuntamento. Di fatto la clinica opera anche quel venerdì. Al telefono mi dicono: Questa è l’ultima possibilità, la data delle prossime operazioni è al di là del limite di legge. Comincia un travaglio terribile, pressioni serrate da parte sua per manipolare la mia decisione, sintonizzarla sulle sue esigenze, intonarla alla responsabilità che porto. Non posso realmente decidere, il sabotaggio della sua ansia mi tiene in allarme, anche se dentro di me ho già deciso.
La sera prima dell’appuntamento ho pensieri truci e sanguinari, vedo lame di coltello, sento odio per lui. Capisco che sto per attirarmi emozioni con cui dovrò fare i conti. Si aprono due possibilità: se decido per l’aborto, so quali pensieri mi tormenteranno, se decido di tenere il bambino, non so ancora quale luce mi folgorerà.

phone call photo

Giovedì dovrei andare a farmi somministrare il farmaco che blocca la gravidanza. Invece mi reco dalla ginecologa e ritiro la prima ecografia e di sera partecipo all’incontro informativo della Geburtshaus di Kreuzberg. Arrivo come un’aliena discesa dal pianeta delle ombre. Cerco qualcosa che mi scaldi.

Ci dicono che Berlino sta vivendo un vero baby boom, superiore alle capacità delle strutture esistenti. Spesso devono fare ricorso a colleghe esterne. Critica è la situazione degli studi ginecologici: molti non accettano più nuove pazienti.

La maggior parte delle donne presenti è affiancata dal compagno, ma io mi concentro su un altro aspetto: queste splendide ostetriche emanano una luce di consapevolezza e accettazione. Parlano della nascita come un’esperienza di conoscenza del corpo, che va assecondato, come un passaggio sacro in cui la donna e il bambino hanno il diritto di sentirsi bene, accompagnati con discrezione e fiducia, in un momento delicato che nessuno può disturbare.
Ci fanno vedere le due stanze della nascita: rossa l’una, come un utero, gialla l’altra, festosa come un giorno di sole. Qui possono essere portati i CD preferiti, oggetti a cui si è legati e addirittura i propri figli.
Qualcuna ha partorito con otto persone attorno. C’è anche la vasca per rilassarsi o per fare il parto in acqua. Tessuti discendenti dal soffitto per appendersi e dondolarsi. Sgabelli a forma di U. Letti come a casa propria, morbidi e pieni di cuscini. Una culletta di legno. Nessun dottore.

Le ostetriche si rivolgono alle future partorienti dicendo sempre: i vostri compagni e le vostre compagne. Certamente si può avere un partner donna, e mi piace questa fairness del linguaggio. Si può anche essere senza partner. Chissà che il bambino non sappia già tutto, scegliendo lo spazio di vita che l’accoglierà. E come arriverà: chi può prevederlo? Le madri più esigenti cercano la struttura ideale, l’ospedale Waldorf a Spandau, la Geburtshaus con l’ostetrica di fiducia che ti chiama per nome e dice “meine Liebe, Süße”, il parto a casa con un comitato d’accoglienza di quartiere. Ma nessuno può dire cosa succederà dopo quel primo “sì”: un atto di fiducia nella vita che dimostra quanto sia vulnerabile ogni programmazione​. Davvero è la vita che decide.

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Rifletto sulle 40 settimane di gestazione e mi viene da pensare al valore simbolico del numero.
Le memorie bibliche dei 40 anni di esilio e dei 40 giorni nel deserto rimandano a un passaggio, alla separazione da una forma di sé attraverso la crisi. Non si può dire in quale punto della maturazione cominci la nuova vita, se essa sia manifesta già prima dei 40 periodi, se sia il futuro nascente ad aprire le acque del passaggio.
Per questo apprezzo le iniziative che riconoscono il transito dei bambini non nati come vite incorporate nelle famiglie. Il St-Matthäus-Kirchhof, a Schöneberg, oltre al sepolcro dei fratelli Grimm ospita il “Garten der Sternenkinder”, dando sepoltura per vent’anni ai bambini nati morti.

Se avessi abortito avrei strappato via la mia radice. Non potevo farmi questo male. Ora la radice si allunga verso la luce e al posto della paura irradia un senso dell’umorismo necessario ad accettare le cose come sono.