“Nella vecchia Trattoria”: ovvero quell’antica filastrocca sul lavoro nero a Berlino, che nessuno canta mai fino alla fine

lavoro nero
Nota di redazione. Vista la delicatezza dell’argomento, ci teniamo a precisare che le foto utilizzate in questo articolo non si riferiscono in nessun modo alla storia raccontata o a situazioni irregolari o di lavoro nero.
Sono semplicemente immagini di giovani lavoratori che abbiamo scelto con criteri casuali.

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di Jacopo Riccardo Marghinotti

Se me lo si chiedesse direttamente, dopo averci riflettuto un attimo, alla fine risponderei che sì, sono una persona onesta.
Eppure, durante tutto il mio primo anno a Berlino ho lavorato in nero. O meglio “in grigio”, e cosa intenda con l’espressione lavorare in grigio lo spiegherò più avanti a quelli che faranno lo sforzo di leggere fino alla fine.
Prenderò spunto da una vicenda realmente accaduta per raccontare un problema che riguarda la nostra comunità all’estero e in particolare un settore, la gastronomia, che riveste un irrinunciabile valore sia strategico che simbolico.

Naturalmente che il problema riguardi esclusivamente la nostra comunità lo esclude il buon senso, quello stesso buon senso che ci impedisce di autoassolverci nel momento in cui capiamo quale sia il nostro ruolo, e le responsabilità a esso collegate, in un “sistema” che magari non perdiamo occasione di criticare. Il buon senso, e non il senso comune, ci obbliga perciò a porre l’antica e nobile domanda: “Che fare?”.
Una parte della mia risposta a questa domanda consiste nello studiare il fenomeno. Mi sono dato poche e semplici regole: approfondire tutto quello che riguarda il tema, non rifiutare alcuna fonte d’informazioni ma non identificarsi con essa, ripromettersi di tenere separati i fatti dalle opinioni, per consentire al lettore di informarsi e costruirsi un’opinione propria.

Il caso Nenna

Ed è seguendo queste regole di semplice buon senso che un giorno scrivo a un’amica, e le chiedo se conosca qualcuno cui il lavoro nero in gastronomia stia particolarmente a cuore. Lei mi rimanda a una bruciante quanto scomposta invettiva da poco apparsa su Facebook, che ha scatenato un certo interesse all’interno del popolare gruppo su cui è stata pubblicata.
La ragazza, che chiamerò Nenna, si rivolge a tutti quelli che come lei sono arrivati da poco a Berlino e li invita in maniera piuttosto veemente a evitare i locali gestiti da italiani.
A suo dire sarebbero persone inaffidabili e disoneste, dato che in un ristorante dove lei ha prestato servizio l’avrebbero fatta lavorare in nero e poi licenziata senza preavviso, nonostante si fosse impegnata a procurare al suo titolare tutti i documenti necessari alla regolarizzazione. Il post si conclude con la promessa di recarsi al Job Center ed eventualmente di denunciare il fatto.
Seguono numerosi commenti, tutti uniti dalla più forte indignazione contro il lavoro nero, che viene unanimemente condannato, e dalla curiosità un po’ morbosa di scoprire l’identità del misterioso titolare. Ma al di là di questo, un simile sfogo non è certo un caso isolato. Almeno su internet materiale simile se ne trova in abbondanza, così come alcuni veri e propri articoli di denuncia che si sono succeduti nel corso degli anni senza riuscire a incidere in maniera decisiva. Ma scorrendo le repliche di Nenna ai commenti indignati si intravede qualcos’altro: quanto lei sia davvero in difficoltà. Sembra infatti che non si sia semplicemente abbandonata a uno sfogo su internet. Sembra davvero furiosa, davvero sola e a sentire lei davvero vittima di un torto.
Io leggo e vedo una doppia opportunità: per lei di essere aiutata e per me di aiutarla. A fare cosa?

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Innanzitutto a capire che si confonde sulle finalità del Job Center, se crede che quello possa essere il suo riferimento, ora. Impensabile infatti che riceva un sussidio per aver concluso un lavoro in nero. Oltretutto in questi giorni sto traducendo dal tedesco esattamente quello che le serve: le tutele minime che ogni contratto deve garantire, ad esempio e la legge sulle ferie minime. Sto inoltre conoscendo il sindacato della ristorazione NGG, convinto che in tanti sarebbero disposti a investire l’1% del proprio stipendio se sapessero che questo basta a tutelare i loro diritti, e in maniera del tutto anonima, per giunta.
L’obiettivo è tanto semplice quanto poco scontato: istruire i dipendenti sui loro diritti minimi e svelare le pratiche peggiori in cui il dipendente, soprattutto il nuovo arrivato, può imbattersi in questa città. Guide simili, anche se non così specifiche, come la guida Primi Passi del ComItEs, esistono già ma purtroppo non godono della popolarità che meriterebbero.
Approfitto quindi della richiesta d’aiuto di Nenna e decido di offrirle la mia completa e gratuita disponibilità.

Scrivo a Nenna

La mattina dopo aver letto il suo post le scrivo per chiederle come sta e per dirle che posso aiutarla. Quando mi chiede come, rimango sul vago. Le dico che sto studiando le leggi che riguardano la sua situazione. Mi chiede se sia un avvocato e le dico di no, che sono un filosofo che lavora in portineria, ma aggiungo che a lei per ora un avvocato non serve. Le chiedo se sia libera e quando ci accordiamo sul posto la invito a portare tutto quello che ha. “Scartoffie”, dico. Ma Nenna non ha nulla. Le spiego che intendo delle memorie prodotte da lei ora: riferimenti precisi che dimostrino il suo legame con il locale. Con questo voglio anche capire la sua motivazione a fare qualcosa.
Ma scrivere non le sembra così importante perché tanto ha una memoria di ferro. Come “prova” menziona solo certe foto su Facebook che la ritrarrebbero nel locale. Immagino me e lei seduti sul lato scomodo della scrivania di un ufficiale dello Zollamt, al 129c di Mehringdamm
e mi chiedo quanto sarà salda la sua memoria lì. Ma non voglio forzarla. Le chiedo quindi com’è andata che si trovasse senza lavoro dall’oggi al domani e il racconto che ne scaturisce è il solito amaro déjà-vu: il titolare l’ha fatta iniziare a lavorare senza chiederle nessun documento. Dopo un mese e mezzo le ha chiesto di consegnargli al più presto una copia dell’Anmeldung e il suo Steueridentifikationsnummer al posto del quale lei ha ricevuto un avviso contenente le disposizioni provvisorie che il datore di lavoro deve seguire, prima che al dipendente venga rilasciato l’identificativo fiscale.

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Morale della favola: nonostante lei gli abbia procurato tutto quello che il datore di lavoro ha presteso, la sera stessa l’uomo le ha comunicato che il mattino seguente avrebbe potuto pure non ripresentarsi.
Le chiedo se il titolare avesse preteso, com’era obbligato a fare, anche la Rote Karte, ma ricevo una risposta negativa.
Le domando se non abbia fatto nulla che giustifichi il licenziamento. So che non ha fatto nulla, ma voglio sapere cosa potrebbe sostenere il titolare. Emergono solo piccolezze, che il datore di lavoro non ha neppure documentato con le dovute Mahnungsbriefe, vale a dire quelle lettere d’avvertimento che il titolare spedisce al dipendente per registrarne le inadempienze ed eventualmente motivarne il licenziamento.

Poi puntualizza che secondo lei il titolare non l’ha davvero licenziata perché in fondo non l’ha mai assunta. Le dico che si sbaglia. Che l’assunzione scatta quando uno comincia a lavorare, cioè appena smette di decidere come impegnare il proprio tempo e si mette a servizio di un altro. Quindi se lei può dimostrare di aver lavorato per qualcuno, deve anche venire garantita dalle tutele minime che spettano ad ogni lavoratore.
Così affronto il punto più delicato: le chiedo se lei abbia mai sollevato, in qualsiasi forma, il tema della propria regolarizzazione. Mi scrive che ha subito chiesto al titolare cosa servisse per essere regolarizzata, ma che lui di fatto ha tergiversato fino al momento in cui ha preteso l’Anmeldung e lo Steuer-ID. E quando li ha avuti, ripete, le ha detto di cercarsi un altro lavoro. Altro non mi serve. Se così stanno le cose lei ha ragione e lui torto.

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Photo by agroffman©

Io e Nenna ci incontriamo

La incontro in un “ostello” nel quale condivide una camera da circa 12 m2 con una coinquilina e per la quale ciascuna paga 250€. Nell’altra stanza, più grande, vivono in tre e spendono a testa lo stesso.
Mi rivela che l’intero edificio è affittato in questo modo. Il che, per il locatario, significa un guadagno straordinario, anche considerato il caro affitti che imperversa sulla città. Mi chiedo se sia un caso che Nenna abiti lì.
Le dico che credo possa ottenere di essere reintegrata con un contratto. Aggiungo che certamente ha diritto a delle ferie. Lei però non vuole tornare a lavorare in quel posto per via del clima che si è creato. Dice che col titolare non vorrebbe avere più niente a che fare. Che con lui è furibonda. Quindi, se può fargli prendere una multa, bene. Se ci può ricavare dei soldi, meglio, ma se dovesse incontrarlo di persona, alla minima provocazione finirebbe con certezza per passare dalla parte del torto. Ed è sicura che lui, conoscendone il temperamento, la provocherebbe proprio con quel fine. Prende in considerazione una denuncia allo Zollamt, dopo che le ho spiegato che è simile al nostro ispettorato del lavoro. Si parla poi di Job Center, del quale le ha parlato un collega, sottolinea con fare allusivo, e della cui affidabilità dubita. Pensa sia una sorta di spia del titolare. Qui il discorso un po’ si confonde, perché dice di essere andata al Job Center, ma di non aver detto dove lavorasse per “non mettere nei casini lo chef (il capo)”. Ma racconta anche di una cosa simile avvenuta alla Krankenkasse. Di fatto emerge che è stata in alcuni uffici ma non ha mai detto dove lavorasse.
Nenna sproloquia volentieri sulle malefatte degli italiani. Speravo di averle fatto cambiare idea, ma a quanto pare il suo pregiudizio resta saldo. Il mio campanilismo illanguidito da 15 anni di vita fuori sede, si desta dai recessi in cui era sparito. Ma prima di crocifiggere Nenna sulle vette della “nostra” filosofia politica o di schiacciarla sotto il peso della “nostra” cultura millenaria rinsavisco, sic et simpliciter. E mi ricordo di essere migliore di così.

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Mi aiutano certi momenti divertenti: Nenna mi racconta entusiasta di un certo rimborso per il rimpatrio, inserito nel Jobs Act, precisa, di cui però non è stata informata dal “suo sindacalista”.
Sfruttando questo incentivo al rimpatrio, dopo un soggiorno di lavoro all’estero potrebbe ricevere del denaro
siccome nessuno controlla” potrebbe immediatamente tornare a Berlino e spenderlo.
Stordito dalle cifre a tre zeri che già pregusta, le chiedo quanto paghi per il sindacato in Italia. E con mia grande sorpresa rivela di non pagare nulla. Strano, penso. E infatti ammette di non essere iscritta. “
Perché ci sono sempre un sacco di vecchi in coda e perché ti chiedono delle cose“, dice riferendosi alla compilazione di eventuali moduli.
Ma chi è allora il suo sindacalista, se non fa parte di un sindacato?
È uno. Che aiuta a fare le pratiche. E che vuole essere pagato (allora qualcosa paghi, Nenna!).
Ma a che titolo, le chiedo, si fa pagare questo signore? È un avvocato, un commercialista, un finanziere in pensione? Ma lei si mostra sinceramente perplessa e non sa rispondermi. Rimane un attimo in silenzio e riflette. In effetti le ho instillato un dubbio e indagherà, dice.

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Io nel frattempo rivedo, dietro il suo “sindacalista”, la nutrita schiera di connazionali che oggi a Berlino si fanno pagare per “sbrigare”, senza alcun titolo o responsabilità legale, gli obblighi burocratici tedeschi e si guardano bene dall’offrire l’unico consiglio che si possa dare, gratuito e disinteressato. Ossia che quel “sistema”, che magari criticano con ferocia, prevede già organi di consulenza e patrocinio: in primo luogo l’ItalUIL, il patronato Italiano a Berlino, nato col preciso scopo di aiutare gli emigrati nel mondo del lavoro (un ufficio che sbriga pratiche gratis, perché è nostro diritto essere aiutati gratuitamente, così come è nostro dovere informarci). Poi il ComItEs, già citato per la guida che ha prodotto, investito del compito di perorare la nostra causa di emigrati in parlamento e per il quale tutti gli iscritti all’Aire dovrebbero periodicamente votare. E questo per rimanere al supporto istituzionale italiano.
Ma troppo ancora ci sarebbe da dire ed io sono da Nenna innanzitutto per ascoltare. E le lusinghe di un facile moralismo mi tentano suadenti. E velenose.
Lasciamo l’ostello e la accompagno nei pressi di un ristorante dove ha appuntamento per una prova. La biblioteca dove sono diretto è proprio lì accanto. I miei ultimi consigli sulle condizioni che vincolano il titolare durante il 
Probezeit non fanno su di lei alcuna breccia. Sparisce senza voltarsi, un po’ stordita dalle luci del centro, che vede ora per la prima volta. La saluto con gioia.

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Photo by bigbirdz©

Io e Nenna ci scriviamo ancora su internet

Alla fine del colloquio Nenna sembra soddisfatta. Il nuovo datore di lavoro le ha fotocopiato i documenti e le ha detto di presentarsi la settimana successiva. Non ha ancora parlato di soldi, però.
Le auguro buona fortuna ma la metto in guardia, ancora, sui pericoli insiti negli accordi informali cui molto probabilmente andrà incontro. Non voglio scoraggiarla. Ma neanche intendo nasconderle che, per quanto desideri essere smentito, non ho ancora trovato un dipendente cui siano stati riconosciuti tutti i diritti minimi.
Per quanto riguarda il da farsi con il titolare della trattoria, mi risponde che preferirebbe non averci a che fare e che è nausata solo all’idea, “
se ti va chiama e vedi cosa ti dicono”, mi dice.

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Se ti va chiama, la frase mi ronza un po’ in testa, come un moscone sul vetro d’estate. Poi vado a dormire.
La mattina del giorno seguente scrivo:
Ciao Nenna, sei tu che devi dirmi cosa fare perché la faccenda riguarda in primo luogo te. Io ho provato solo a spiegarti che hai ragione, quali diritti ti spettano e come fare per ottenerli. Ti posso aiutare col tedesco ma le decisioni devi prenderle tu e in maniera chiara.
E lei subito mi ricorda che un accordo di massima già l’avevamo preso: dovevo chiamare l’ispettorato al lavoro per sapere come procedere e se davvero avevo ragione a dire che le era stato fatto un torto.
Al che segue una chiamata di circa mezz’ora con la Zentrale Informations- und Anlaufstelle. Il numero è lo 030-90281452. Lo scrivo nell’eventualità che ci fossero altri “Principi Miškin” interessati come me a farsi i fatti altrui. Poi la aggiorno:
Hai due possibilità: la prima è ricorrere al tribunale del lavoro e la seconda è denunciare all’Hauptzollamt Berlin. Se scegliessi questa via, potresti sporgere una denuncia anonima o una nominale.
Le faccio capire che quella anonima non sarebbe molto efficace, perché non ha alcun grado di priorità.
Le scrivo che con una denuncia nominale il titolare prenderebbe molto probabilmente una multa salata. E se venissero alla luce altre irregolarità la sanzione sarebbe ancora più grave. Al che lei mi chiede se questa denuncia si possa fare anche telefonicamente o se si debba andare necessariamente di persona negli uffici competenti e quante volte.

Spiego che può anche inoltrare la denuncia per fax o via internet, ma che è molto facile commettere degli errori. Quindi è meglio andare di persona, visto che in entrambi i casi un certo impegno da parte sua è previsto. Naturalmente mi è ben chiaro cosa sta pensando. E quanta poca voglia abbia di intraprendere alcunché.

Il giorno dopo le chiedo se abbia deciso di fare qualcosa. Certo che ha deciso. E tuttavia non me lo dice. Infatti passa un altro giorno senza ricevere notizie. Mi è chiaro che l’indignazione è sparita, rimossa da quelle instancabili energie che sempre ci allontanano dalle promesse nate nella rabbia. Intanto i commenti indignati al suo post si moltiplicano, insieme alle più sincere promesse di vicinanza che Facebook può esprimere. Ma per Nenna le cose sono cambiate, la sua rabbia è svanita, Nenna vuole solo pace e serenità e confida in una giustizia superiore.
Il nuovo lavoro le piace, guadagna bene e pensa che già questo sia una sufficiente rivincita sul precedente datore di lavoro.
Il fatto di non avere un contratto nemmeno adesso sembra non turbarla. Mi ringrazia per averla aiutata, si scusa e mi dice “fatti vivo quando vuoi”.

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Photo by adactio©

L’atto finale

È in questo momento che decido di presentare il mio conto. Lei infatti può pure “licenziarmi senza preavviso”, ma il problema che ha denunciato rimane. Di questo sono convinto. Così come rimane il suo post, a vivere di vita propria e a generare a ogni lettura la stessa compassione. La stessa falsa impressione di ribellione. E rimane anche il fatto che il problema non riguarda solo alcuni ristoratori ma è qualcosa di più generale. Sistemico forse. Esistono casi di lavoro nero puro e semplice come quello che ha riguardato Nenna. Ma sono meno rispetto a quelli “in grigio”.

Che cosa sono dunque questi contratti in grigio? Si tratta di tutte quelle forme contrattuali per cui il dipendente riceve a fine mese buste paga con importi minori del compenso effettivo. In questo modo il datore di lavoro può “risparmiare” anche metà di quei Sozialbeiträge che spettano al dipendente, ossia in primo luogo i contributi pensionistici e quelli “sociali”. Cosa siano questi ultimi è presto detto: sono ad esempio quel denaro che ti danno al Job Center sotto forma di sussidio quando affermi di guadagnare troppo poco. E dato che quella busta paga che offri al Job Center come prova della tua indigenza è effettivamente troppo bassa per garantire il sostentamento minimo, i Sozialbeiträge sono proprio quei fondi che il dipendente in grigio riceve invece di versare, attingendo da un fondo che avrebbe il dovere di rimpinguare.
Fa niente poi che con una busta paga così bassa gli sarà impossibile trovare casa. Tanto non manca chi potrà realizzare per lui delle buste paga da sogno con Photoshop.
E fa niente che i contributi per la pensione siano soldi suoi, dei quali viene privato senza alcuna ragione valida. Uno poi non si cura neanche del fatto che il Job Center col tempo diventi pressante. E che, lui sì, chiederà al dipendente di fare molte cose. Neppure spaventa il numero di quelli che devono restituire i sussidi ricevuti indebitandosi anche per decine di anni con il Job Center. Ma a importare meno di tutto è la coerenza. E il fatto che essere parte in causa di questo gioco a perdere dovrebbe precludere la possibilità di indignarsi. Di lamentarsi di una burocrazia troppo complicata. Di condizioni di lavoro scadenti. E perché no, anche di un governo di ladri e vigliacchi. Ma chi ha voglia di guadagnarsi il diritto all’indignazione quando l’invettiva che tutto assolve è così a buon mercato? Anche perché a voler fare la cosa giusta è facile scoprire di essere dalla parte del torto. E che il proprio indice è gracile, che solo parole sgradevoli descrivono la propria condizione in questa truffa che ai più non frutta alcun bottino.

Mentre assisto ai primi passi di Nenna a questo ballo mascherato della complicità la do per persa e le scrivo:
C’è una maniera sola di metterlo in cattiva luce ed era quella che hai detto e ripetuto di voler intraprendere. Dicevi che l’unica cosa che ti importava era che non capitasse anche ad altri ed ora non è cambiato assolutamente nulla. La prova? Anche adesso lavorerai in nero. Smentiscimi se sbaglio. In più hai infangato l’intera categoria dei ristoratori italiani. Me la prendo solo perché hai fatto finta che interessassero gli altri quando eri nella merda… e ora che non ne hai bisogno te ne freghi. Non sei migliore del tuo vecchio capo. Detto questo ti auguro buona fortuna. Poi se cambi idea io sono qui”.
Chiaramente non batte ciglio, Nenna. So che non è tipo da farsi impressionare da me. Mi dice che non è vero che se ne frega e che non ha infangato nessuno, ma che alla fine non è una persona che denuncia e non lo è mai stata.

Nenna è lontana come fumo all’orizzonte, ora. Quindi le scrivo con un po’ di autocompiacimento di non vantarsi per non aver mai denunciato. Se in Italia la mafia è così potente forse un collegamento con questo tipo di atteggiamento c’è.

Aggiungo che dovrebbe fidarsi di me che abito a Berlino da sei anni e qui ho visto molti più locali, titolari e dipendenti di lei: “Ti renderai presto conto che tutti sanno che il lavoro è spesso irregolare ma nessuno fa niente. Ecco perché mi sbatto. Guarda tu stessa come ti sei perfettamente adattata al tuo nuovo lavoro nero”. Quanto all’infangare la correggo, “Te la sei presa ingiustamente con alcuni e hai perso di vista il fatto grave che il problema è molto più generale”.

Poi concludo dicendole: “non prendermi per un esaltato, so che se hai bisogno di soldi non puoi rifiutare. Ma è l’ipocrisia che non mi torna. “Spero cambierai idea quando ti renderai conto che alla fine quella fregata sei tu”.

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Durante la notte si difende, ma io la incalzo, ribadisco che la considero un’ipocrita, perché su internet ha finto di battersi per la virtù e la giustizia, ingannando di fatto chi l’ha ascoltata, che ha parlato di denunce e di boicottaggio indiscriminato, per poi comportarsi nel mondo reale come se nulla fosse accaduto.

Detto questo non prendertela” le dico “perché anche i dipendenti sono così. Vanno al Job center con le loro buste paga basse e prendono il sussidio. Pesando sulle spalle di quelli che i contributi li pagano, ossia i tedeschi e gli immigrati onesti. “Ricordi quando hai detto che se fossi straniera giudicheresti malissimo gli italiani, perché si fanno conoscere ovunque per la loro disonestà? In questo hai avuto ragione”.

A stretto giro Nenna risponde con un’invettiva, mi dice che quando si denuncia, in questi casi, si viene a sapere nell’ambiente e nessuno ti fa più lavorare, che non si ritiene disonesta e che se ci tengo tanto posso farmi assumere io a nero in un ristorante qualunque e poi denunciare. Dice anche che la sto esasperando e che per quanto riguarda il suo ex datore di lavoro ci penserà il “karma”.

Tra tutte le accuse che ho ricevuto quella di essere uno che non si fa gli affari propri è l’unica che mi ferisce. Perché è l’unica vera. E nonostante questo non riesco a chiudere che con un arrivederci: “Quando ti renderai conto che il mio aiuto ti serve sarò qui”.

E così ce ne andiamo io e Nenna, dandoci virtualmente le spalle: uno più onesto e solo e l’altra solo più sola.