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Brexit, Berlino e Londra, integrazione o disintegrazione? Intanto si preoccupano gli immigrati italiani in Inghilterra

Brexitdi Cinzia Colazzo

Sinora il movimento dell’Unione Europea è stato di allargamento. Le questioni legate al processo di adesione e ai criteri di Copenhagen hanno per anni preso la scena. Nei dibattiti l’attenzione era puntata sull’articolo 49 e sui Paesi aspiranti, in procinto di recepire la legislazione della UE (Albania, Ex repubblica jugoslava di Macedonia, Montenegro, Serbia e Turchia). Dopo la Brexit e l’applicazione dell’articolo 50 sul recesso volontario e unilaterale dalla UE, ora i Paesi membri sono 27 e l’Unione deve fare i conti con questioni delicatissime, legislative, economiche e anche identitarie.
A queste si aggiungono tensioni politiche che forse il referendum non aveva previsto, sino alle velate minacce belliche di Londra verso la Spagna sulla questione dell’uscita di Gibilterra dalla UE.
Oltre a queste tensioni ci sono anche segnali di inquietudine rispetto a una percepita intolleranza inglese verso gli immigrati economici. La recessione da uno spazio comune ha risvolti capillari che destano ulteriori preoccupazioni: se ci sarà una rottura degli scambi commerciali con Bruxelles, sarà probabile che verranno applicati dazi a ogni prodotto “Made in UK”.
Quali sono gli umori degli italiani a Londra?
L’ho chiesto a Giuseppe Marra, ideatore e responsabile di Italianialondra, prima community online degli italiani a Londra, fondata nel 2003.

“La firma della May non ci ha sorpresi, ha semplicemente confermato quello che ci si aspettava succedesse” ha confermato Marra, “se c’è un sentimento legato a questa firma è probabilmente quello del no turning back, ora il divorzio dalla UE sta diventando realtà. Ci sono stati momenti nei quali la confusione e alcune iniziative, come quelle della Sturgeon dell’SNP, hanno creato l’illusione che la finalizzazione della Brexit potesse vacillare, ma ora i giochi sono fatti. Chi vive a Londra sa che il Regno Unito, anche grazie alla determinazione della May, porterà a termine questo processo e lo farà difendendo gli interessi di questo Paese”.
Marra ha inoltre parlato, ed era inevitabile, della condizione degli italiani immigrati nel Regno Unito.
“Per gli italiani, così come per tutti coloro che provengono da Paesi UE, il clima è quello dell’incertezza” ha sottolineato. “Nonostante le rassicurazioni arrivate fino ad oggi” ha spiegato “il destino di coloro che si sono trasferiti qui rimane moneta di scambio dei trattati e quindi incerto. Quello che si può dire è che sicuramente il Regno Unito non potrà fare a meno di oltre 3 milioni di persone che lavorano in tutti gli ambiti professionali, dalla ristorazione ai consultant dell’NHS (servizio sanitario), dalla ricerca alla finanza”.

Giuseppe Marra ci ha detto anche che in questo clima d’incertezza in moltissimi sono corsi ai ripari facendo domanda per la Permanent Residence Card (PRC) e una buona parte di questi sta proseguendo il percorso per la naturalizzazione britannica. Regalandoci preziose informazioni, ci ha inoltre detto che, contrariamente a quanto riportato da molti giornali italiani, la domanda per la PRC è sì impegnativa, ma non insormontabile. La parte più impegnativa è probabilmente la creazione, da parte di chi fa domanda, di una lista di tutti i viaggi fuori dal Paese effettuati negli ultimi 5 anni. Il servizio si sta dimostrando piuttosto efficiente, con la consegna della card in poche settimane, nel migliore dei casi. Chi vuole proseguire il percorso e regolarizzare ulteriormente la propria posizione potrà fare domanda di naturalizzazione sostenendo, come parte della procedura, l’esame “Life in the UK”, un esame di inglese (in alcuni casi non richiesto) e un colloquio.
Alla domanda su quale sia stato invece l’impatto emotivo della Brexit, Marra ci ha risposto che la reazione generale delle persone, italiane e non, è stata quella dell’incredulità. “Non in molti, neanche coloro che hanno votato per il Leave, si aspettavano potesse succedere davvero”.
Ha quindi integrato la sua risposta con una doverosa precisazione: “Bisogna poi differenziare tra Londra e il resto del Paese. Londra è una nazione all’interno della nazione, è un mondo a parte. Qui si è votato in prevalenza per il Remain e lo stupore è stato diffuso. Molti conoscenti inglesi si sono sentiti feriti dall’immagine che questo risultato ha proiettato al resto del mondo, ovvero quello di chiusura verso l’immigrazione, di affermazione antieuropeista. Nel resto dell’Inghilterra i sentimenti saranno sicuramente diversi, anche se c’è molta confusione. È stato un voto di protesta, in gran parte promosso da dati poco attendibili e promesse non mantenibili, un voto contro l’eccessiva immigrazione. Non tutti coloro che hanno votato Leave volevano davvero uscire dall’Unione Europea, volevano prima di tutto meno immigrazione”.

“Sebbene ci siano stati molti italiani che hanno dichiarato di voler abbandonare il Paese, nei primi istanti dopo l’esito del referendum”, ha quindi concluso, “è difficile al momento fare una statistica di chi effettivamente lo abbia fatto o pianifichi di farlo. È chiaro che chi è giunto nel Regno Unito da meno di 5 anni e di conseguenza ha difficoltà a regolarizzare la propria posizione acquisendo la PRC, potrebbe al momento vedere un futuro incerto e decidere di investire altrove. La Gran Bretagna rimane tuttavia un paese che ha moltissimo da offrire. Tanti probabilmente aspetteranno di vedere quali condizioni emergeranno dalle negoziazioni”.

L’euroscetticismo è sempre stato un movimento forte nel Regno Unito, Margaret Thatcher e Theresa May sono state messe a confronto su questo punto.
La domanda di adesione alla CEE era stata rifiutata due volte e poco dopo il sospirato ingresso, avvenuto nel 1973, era stato indetto un referendum per decidere sulla permanenza del Regno Unito nella Comunità. Il 26 aprile 1975 l’elettorato britannico aveva votato a favore del Remain, con una maggioranza superiore al 60%.
Non possiamo prevedere cosa succederà dopo l’uscita del Regno Unito (e l’eventuale ingresso della Scozia). Ciò che è evidente ora è lo svilupparsi di due movimenti di idee. Da una parte preme lo scetticismo verso l’Unione Europea, come progetto politico ed economico, che fra crisi dell’occupazione, pressione della globalizzazione, flussi di popolazioni in fuga, tensione con la Russia e con la Turchia, incertezza sul futuro del dialogo con gli USA e ascesa di populismo e nazionalismo, sembra non riuscire a dare risposte ai suoi cittadini. Dall’altra sorgono iniziative a favore di una cittadinanza europea che sinora è stata poco sentita.

Per far fronte alla perdita di affezione verso il progetto dell’Unione, lo scorso 23 marzo è stato presentato a Roma, presso la sede dell’Ambasciatore tedesco in Italia, il Manifesto per una futura Unione Federale Europea. Il Manifesto riprende lo spirito dei Padri della Comunità e dell’Unione Europea, che dopo la Seconda Guerra Mondiale promettevano pace e prosperità ai suoi membri. E critica l’eccesso di burocrazia delle istituzioni europee, che le allontana dai suoi cittadini e che ha aperto la strada ai nazionalismi, cioè alla ricerca di soluzioni locali a problemi (solo in apparenza) locali.
Il gruppo di giovani intellettuali di diversa nazionalità che ha elaborato il Manifesto, afferente a Villa Vigoni, organismo che promuove le relazioni fra Italia e Germania in prospettiva europea, propone un rinnovato contratto sociale, nella convinzione che l’unità e la solidarietà europea siano le sole risposte razionali ai bisogni di sicurezza, protezione dell’ambiente e uguaglianza, e che il processo debba partire da una semplificazione della forma di governo dell’Europa. Il Manifesto può essere sottoscritto online.
Non sono questioni lontane a noi. C’è chi scommette sull’uscita dell’Italia dall’Unione. Perché a questo punto il dibattito sembra fermo al braccio di ferro fra intransigenza tedesca e richiesta di solidarietà da parte delle nazioni dell’Europa del Sud.

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