Black Heart Procession a Berlino: ridefinire la bellezza
di Emanuele Barletta
C’è questo autore americano di nome Pall Jenkins che scrive canzoni malinconiche, ma talmente malinconiche che ti costringono a ridefinire il concetto di bellezza. Pall Jenkins è il motore dei Black Heart Procession, una band che ha saputo fare storia partendo dalle periferie della storia di un certo rock collaterale. L’occasione dellla tappa berlinese del tour del “reunion” era troppo ghiotta. Infatti eccomi qua.
Ho ancora ricordi sorprendentemente nitidi di un loro concerto bolognese di almeno dieci anni fa, in quell’hangar chiamato Estragon e deputato ad ospitare band con un seguito mastodontico. Non fu così per i Black Heart Procession. Doveva essere il tour a supporto dell’album “The Spell”, o giù di lì, ma quella data si trasformò in una funzione religiosa per una cerchia molto ristretta di fedeli. Pagani e devoti.
Il nome dei Black Heart Procession non è di quelli altisonanti. Non sempre finiscono nelle enciclopedie o nelle playlist tipo “gli X dischi fondamentali per capire il genere Y”. Eppure, per fortuna, la penna malinconica e solenne di Pall Jenkins è riuscita ad imporsi per autorevolezza e grandiosità. Non è un caso che il concerto di cui stiamo parlando fa parte di un tour per celebrare il ventennale del primo album della band, sobriamente intitolato “1”.
Arrivo come mio solito di buon’ora al Silent Green Kulturquartier di Wedding (praticamente dietro casa mia, la bellezza della comodità). In apertura tocca a Sam Coomes (ex Quasi) scaldare i cuori dei già numerosi presenti. Regala canzoni solitarie e con melodie lo-fi sbilenche. Buonissime le intenzioni, un po’ meno le canzoni. Un suono molto irregolare e (dai, sì) molto Sebadoh che sembra invecchiare molto male. E il tempo, in musica come nella vita, sa essere una brutta bestia.
Alle 21.30, puntualissimi, i Black Heart Procession salgono sul palco. Vengono da San Diego, ma le loro “marce funebri” sembrano arrivare da un’America molto più rurale. L’America dei grandi spazi e dai confini sbiaditi, orizzonti sconfinati, terreni aridi e cieli enormi. Cantano dell’amor perduto e fanno di tutto per far scendere le lacrime a noi poveri ma gaudenti spettatori. Quante band possono dire di aver scritto una “Release my heart“? O una struggente “A cry for love” che, ancora una volta, ti spiega che ci vuole coraggio a prendere certe decisioni, ma anche a lasciarsi andare.
C’è molto Tom Waits, nelle canzoni dei Black Heart Procession. Raccontano mondi notturni, noir e dolorosi. Ma a voler fare il giochino della band che somiglia a un’altra band, ecco che tocca chiamare in causa nomi “desertici” come Califone o Giant Sand. Oppure quel collettivo di canaglie spezzacuori chiamato Okkervil River, forse (insieme ai Black Heart Procession) una delle ultime vere band “letterarie” della nostra epoca recente.
Con sobria solennità i Black Heart Procession tornano dopo anni di silenzio, e pare che ci sia un pugno di canzoni nuove già scritte e pronte per finire in un nuovo album.
Sarebbe una buonissima notizia, in tempi così bui e senza certezze per nessuno.