Musica di seta: intervista a Flavia Feudi, della Silk Road Symphony Orchestra
di Cinzia Colazzo
Incontro Flavia Feudi nel mio bar preferito di Kreuzberg (che chiuderà nelle prossime settimane a causa di un rilancio dei costi di affitto, n.d.a.). Mentre le rivolgo le prime domande, mi rendo conto che il suo volto mi distrae. Sto cercando un aggettivo per descriverlo. Etrusco? In ogni caso lei è più giovane di me e questo provoca una certa fascinazione. Flavia è fresca, luminosa e tenace. L’ultima volta che l’ho vista indossava un abito nero e aveva il suo clarinetto in mano. Io ero immersa nella delizia di un’esperienza fulminante. Era il 20 gennaio di questo nevoso inverno e Flavio de Marco (da me intervistato nel 2014 per Il Mitte) mi aveva invitata a una serata di arte e musica nell’Orto Botanico. A lui vanno le più alte lodi per il concepimento di questa idea.
Per contiguità (di musica da camera e arte figurativa) e contrasto (fra la neve rafferma in città e la fragranza tropicale nell’Orto), la serata era stata incantevole. Immerso nell’aria tiepida della maestosa serra, satura di verde esorbitanza, e sorpreso dalle opere di Flavio de Marco emergenti fra foglie pendule, il pubblico aveva potuto ascoltare come in sogno musiche di Ligeti, Debussy e Mozart suonate dai musicisti della Silk Road Symphony Orchestra.
De Marco aveva lavorato alle opere en plein air in connubio con la musica, estendendo un progetto partito nel Tiergarten con una serie di 27 disegni, corrispondenti ai 27 concerti di Mozart per pianoforte e orchestra.
Anche nell’Orto Botanico aleggiava la musica di Mozart, così ben eseguita dal clarinetto di Flavia Feudi che ho voluto intervistarla.
Chiedo a Flavia qualcosa di sé. Mi racconta del suo paese, Monterosi, che raccoglie cinquemila anime sulle colline fra Roma e Viterbo. Qui tutti si conoscono sin da piccoli. Flavia inizia a suonare il clarinetto nella banda del paese. La scelta dello strumento si deve al bisnonno Michele, già clarinettista e direttore di una piccola banda nella Ciociaria. Poi cominciano gli anni delle faticose trasferte per frequentare il Conservatorio a Roma: le lunghe attese del padre in auto, gli sforzi della famiglia, il liceo classico e le giornate infinite di studio.
Chi è musicista conosce queste fatiche silenziose e la forza interiore con cui si forgia la volontà. Dopo il diploma, la specializzazione all’Accademia Santa Cecilia e poi il Mozarteum. Le chiedo come abbia vissuto il passaggio da Monterosi a Roma sino a Salisburgo.
“Nel momento in cui ho lasciato l’Italia, sapevo che avrei perso tutti i contatti e il sostegno affettuoso dei docenti che mi avevano seguita, ma una voce dentro di me mi ha spinta ad andare via. Sapevo anche che a Salisburgo non mi sarebbero state risparmiate critiche e obiezioni sulla mia tecnica, ero pronta alla mancanza di tatto e al passaggio verso una responsabilità maggiore. Ho passato i primi tre mesi chiusa in una stanza a studiare scale e arpeggi. Ovviamente frequentavo anche lezioni di lingua tedesca.
Ho dovuto reagire da sola allo sconforto iniziale. L’impegno didattico e l’attività orchestrale erano intensissime, mi svegliavo alle sei e andavo a mettermi in coda per trovare un’aula, nella quale passavo dieci ore a studiare. Non c’è stato mai un giorno in cui non mi sia sentita felice di quello che facevo. Non mi accorgevo della fatica”.
La concentrazione sullo studio e la frequenza delle prove le hanno permesso di sviluppare un senso di appartenenza forte. “Era come la mia famiglia. Bellissimo stare a contatto con musicisti di tante provenienze diverse che altrimenti non avrei incontrato. Ho scoperto culture di Paesi che non compaiono mai nel telegiornale, Paesi che nel nostro immaginario sono arretrati e desolati, e invece proprio da lì provengono musicisti attivi, indipendenti, colti, a proprio agio con le lingue straniere. La mia migliore amica però era una giapponese, tenera e delicata come un ciliegio in fiore”.
Le chiedo come sia stato per lei tornare a Monterosi dopo i periodi trascorsi al Mozarteum. Mi dice che ogni volta che tornava a casa aveva la sensazione di non essersi mai assentata da lì, di aver mangiato con gli altri ogni giorno. Le chiedo se quello sia il luogo della sua autenticità, il rifugio dove riporre le maschere. “Sì, lì non ho bisogno di filtri. Arrivo a casa e mi svuoto di tutto”. Dopo il master al Mozarteum, la tappa successiva è Berlino. “Da Salisburgo avevo preso tutto quello che potevo. Era anche una situazione protetta e io avevo bisogno di mettermi alla prova. Mi sono sempre fidata del mio istinto e anche stavolta mi sono buttata. Mi faceva paura l’inattività, stare a casa ad aspettare”. Flavia è anche nelle liste in Italia per insegnare musica nelle scuole. “Mi chiamano ogni tanto per supplenze brevi, come insegnante di sostegno o di religione”. A Berlino studia con il primo clarinetto dei Berliner Philharmoniker, che le dà la possibilità di trovare contatti interessanti e buone proposte, anche da solista. Viene a conoscenza del progetto Silk Road Symphony Orchestra, si butta, invia curriculum e registrazioni e riceve l’invito a ricoprire il ruolo di primo clarinetto.
“In una settimana cento musicisti da tutto il mondo hanno messo su un magnifico programma, eseguito l’11 giugno 2016 presso l’Haus des Rundfunks sotto la direzione di Jan Moritz Onken”. A lui si deve la visione di un’orchestra sinfonica della Via della seta. Con il sostegno della Fondazione Callias e il patronato della commissione tedesca per l’Unesco, il progetto apre un dialogo fra Est e Ovest, fra pratiche diverse della musica classica, un confronto fra Vecchia e Nuova Via della seta.
L’idea è ampia e ambiziosa: si tratta di invitare al dialogo non solo musicisti sparsi sul pianeta, ma anche amanti della musica che vogliano contribuire all’interazione. Sul sito del progetto è possibile digitare il pezzo musicale di preferenza e includerlo in un punto a scelta del percorso. Ogni anno la Silk Road Symphony Orchestra inserisce nel programma di concerto un contributo selezionato. La via della seta qui evocata (dove per seta si intende qualità) disegna una cintura che abbraccia idee musicali da punti lontani fra loro con il supporto di tecnologie digitali di interazione.
Sono affascinata dall’idea e anche dall’apertura che rappresenta. Personalmente trovo che sia un grande esercizio, uno sforzo diaframmatico, stare in un punto del pianeta e proiettarsi altrove, radicarsi nella propria tradizione e nuotare in un oceano di informazioni, sentirsi a casa in un paesino come Monterosi e impugnare lo strumento per muoversi nel “mondo grande e terribile”, come lo definiva Gramsci. Un privilegio che richiede tenuta e gioia e questo è ciò che hanno in comune Flavia Feudi e Flavio de Marco.