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Cécile Kyenge a Berlino: “Hate speech e fake news sono diventati uno strumento politico”

Cécile Kyenge
Photo by Mike Dean

di Lucia Conti

Ho incontrato Cécile Kyenge nella sede della FES (Friedrich Ebert Stiftung) di Berlino, dove si è recata in occasione di un incontro del Consiglio d’Europa. L’ho intervistata prima che iniziassero i suoi impegni politici e istituzionali e abbiamo affrontato i temi che da sempre la vedono coinvolta, sia in Italia che in ambito internazionale. Già ministro dell’integrazione del governo Letta, Cécile Kyenge è al momento europarlamentare con il PD. 

Partirei proprio dal suo impegno in Europa. Quali sono le priorità e i progetti su cui sta lavorando?

Sto lavorando sui temi che mi hanno impegnata fin dal primo giorno che sono entrata in Parlamento, vale a dire immigrazione e asilo. Ho ricevuto la responsabilità di scrivere una strategia a riguardo, elaborata attraverso un rapporto di iniziativa che poi è stato votato come risoluzione dalla stragrande maggioranza dei deputati e che chiede l’approccio olistico, cioè globale, nei confronti di questi fenomeni. Questo mi ha permesso di approfondire e fare anche delle proposte di breve, medio e lungo termine, che hanno fornito una base per tutto il lavoro che oggi il Parlamento, insieme alla commissione, sta facendo.

Brexit, Trump e l’emersione di diversi movimenti populisti europei stanno progressivamente determinando l’erosione di quei valori di tolleranza e accoglienza che lei ha sempre promosso. Come giudica questa situazione?

È difficile. E devo dire che se siamo arrivati fin qui è perché sia l’istituzione europea, sia gli Stati membri, non hanno saputo dare risposte concrete a un fenomeno che non è un’emergenza, ma è stato sempre presentato come tale, con delle politiche sbagliate e un approccio securitario che non tiene conto del fatto che parliamo di meccanismi globali.
È difficile perché gli Stati membri, in tutto questo, non abbandonano il loro egoismo e continuano a lavorare al fine di rimettere in piedi i nazionalismi. I nazionalismi sono stati abbandonati molti anni fa e il progetto europeo è nato, dopo la seconda guerra mondiale, proprio per non tornare indietro e non ripetere gli errori del passato.
È anche questo il senso della memoria, la memoria di quegli episodi di odio, violenza e crimini perpetrati su territorio europeo che abbiamo ancora molto chiari nella mente e che abbiamo ricordato una volta di più lo scorso 27 gennaio, giornata dedicata alle vittime della Shoa.
Il progetto europeo è stato elaborato attraverso la solidarietà e l’equa distribuzione delle responsabilità. Ora gli Stati membri tornano sulla vecchia strada, come se avessero dimenticato il passato, che deve invece rimanere vivo. L’Unione Europea per tanti anni ha dimenticato che solo attraverso la solidarietà possiamo arrivare a una risposta concreta di politica comune e nel frattempo la popolazione ha paura, perché il populismo si nutre di queste “non risposte” per crescere e così si alimentano xenofobia, paura dell’altro e informazioni sbagliate, cioè delle non veritá.

Qual è il legame tra degenerazioni populistiche e disinformazione?

Sicuramente è molto forte. E proprio per questo mi sono impegnata moltissimo affinché si desse il giusto rilievo a temi come quello dell’hate speech e delle fake news, perché oggi leader politici a mio avviso irresponsabili, perché nessuno deve utilizzare l’odio per promuovere la sua campagna elettorale, hanno fatto diventare tutto questo uno strumento politico. Per un pugno di voti queste persone hanno cominciato a utilizzare il linguaggio dell’odio e a strumentalizzare il disagio della gente, perché la cittadinanza è impaurita, non vede la fine della crisi economica, non vede la fine della crisi della sicurezza e non vede la fine neanche della crisi dei rifugiati, che viene dipinta per quello che non è.
La politica non ha saputo dare delle risposte, per cui oggi dobbiamo lavorare molto di più sull’educazione nelle scuole, dobbiamo far ritornare e mettere al centro valori fondamentali e universali in tutti i settori ed educare i nostri giovani a proteggersi dai pericoli che sono ovunque, anche su internet.

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Photo by Mike Dean

I social hanno qualche responsabilità, nella diffusione di questo tipo di odio?

Hanno sicuramente una responsabilità concreta e per questo le istituzioni europee devono cercare di regolamentare quel settore, che sembra ancora una terra di nessuno, una specie di far west. Dobbiamo farlo, perché normalmente se offendi qualcuno, se inciti all’odio, esistono delle leggi, ma si applicano alla realtà. Sui social, invece, ognuno si sente libero di fare quello che vuole questo porta allo smarrimento di tutti.
Questi sono gli obiettivi che deve perseguire l’Unione Europea, terra di libertà che deve tornare ad essere tale. Dobbiamo rimettere al centro la giustizia sociale, dare una risposta alla disoccupazione giovanile, dare una risposta all’immigrazione, che viene descritta facendo passare messaggi sbagliati. E dobbiamo combattere le fake news, che creano potenziali nemici e orientano le politiche, basti pensare al caso di Trump e alla Brexit. Dietro tutto questo ci sono anche le fake news.

Anche Zuckerberg ha cominciato a porsi il problema, perché dopo le ultime elezioni americane c’è stato un tale livello di disinformazione sui social, da spingere facebook a inserire dei fact-checker

Però la strada è lunga, perché non ci siamo accorti in tempo del pericolo. Io è dal 2013 che seguo tutti questi fenomeni, ahimé, anche per il fatto che ne sono stata vittima. Sono stata vittima di hate speech e sono stata vittima di fake news, vale a dire delle cosiddette “bufale”.

Ricordo l’ultima, quella del mercatino di Natale

Esattamente, quella è l’ultima. Però è dal 2013 che dico: “attenzione, c’è un’altra forma di strumentalizzazione che passa attraverso internet”, ma sono spesso rimasta inascoltata. Forse perché molti hanno erroneamente pensato che la cosa riguardasse solo me. L’accanimento nei miei confronti si lega al fatto che non mi sono mai nascosta, ho sempre detto cose vere, ma non sempre comode, per esempio ho sempre detto “non serve a niente chiudere le frontiere”. E continuo a pensarlo.
Se noi non diamo soluzioni concrete al problema, potete chiudere le frontiere come volete, un muro potrà essere alto quattro metri, ma ci sarà sempre chi cercherà di scalarlo comunque.
Dobbiamo quindi cercare di intervenire anche sulle cause profonde del problema, dare un’opportunità alle persone. E qui ricordo il mio caso: io sono andata via non perché volevo viaggiare, ma perché volevo diventare medico, cercavo un posto dove andare a studiare e non avevo quella possibilità vicino a casa mia. Per questo nessuno avrebbe potuto fermarmi. Io volevo studiare ed ero pronta ad andare ovunque. L’art.13 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani dice che ognuno deve essere libero di migrare, di andare dove vuole. E perché lo dobbiamo impedire da una parte del pianeta?

Un’ultima domanda. Cosa pensa dell’Italia, oggi?

L’Italia è in enorme difficoltà, stiamo attraversando un periodo molto delicato, partito dalla crisi economica, poi passato attraverso l’instabilità politica, il nostro è un Paese che deve ancora trovare il suo equilibrio. Nel giro di quattro anni abbiamo cambiato quasi un governo all’anno, cosa che preclude qualunque progetto di lungo termine e rende molto difficile anche uscire dalla crisi.
Le riforme sono fondamentali, ma devono essere accompagnate dalla stabilità politica. È questo che cerchiamo, oggi.

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Cécile Kyenge vicino alla statua di Willy Brandt, Photo by Mike Dean

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