La Germania e le scuole private: verso una società d’élite?

scuole private

 

di Arianna Tomaelo

La Germania, a differenza di altri colleghi europei, vanta un’ampia classe media, che, anche di fronte a un’apertura notevole della forbice tra classi abbienti e ceto medio-basso (in costante crescita a causa della situazione economica generale), stempera il rischio di una crisi sociale di disparità. Sicuramente parte del merito della presenza di questa classe media è dovuto ad un’applicazione corretta della filosofia dello stato assistenziale, che tra i vari servizi si riflette soprattutto sull’educazione.
Per darne una panoramica veloce per chi non è pratico del tema, il sistema scolastico tedesco si articola in più step, dal Kinderkrippe (per i bambini fino a tre anni) al Dottorato di ricerca, che conferisce il titolo di Doktor. Nel mezzo vi sono il Kindergarten (la scuola materna che ospita bambini dai tre ai sei anni, e che, come il Kinderkrippe, non è obbligatoria), la scuola elementare (Grundschule), l’istruzione superiore, ramificata in: Hauptschule (isituti professionali), Realschule (istruzione tecnica, con successivi corsi di specializzazione) e Gymnasium (formazione liceale), e l’Università, che per lo più vede studenti provenienti dal Gymnasium ma il cui accesso è aperto anche a coloro che hanno scelto una formazione tencica, previa acquisizione dei requisiti accademici grazie alle Fachhochschulen.

Questa suddivisione è prevista a livello generale, poiché la Repubblica Federale Tedesca concede vasta autonomia in tema di educazione agli Stati Federati. Così, ad esempio, a Berlino e nel Brandeburgo la Grundshule dura sei anni, e non quattro, come accade nel resto della Germania. Questa e altre differenze di tipo organizzativo istituite dalla legislazione dei diversi Länder, devono fare i conti con la Legge Fondamentale della Germania, la Costituzione, che dedica l’intero Articolo 7 all’enunciazione dei caratteri imprescindibili della scuola tedesca: la sorveglianza da parte dello Stato, un’accurata preparazione degli insegnanti e l’equiparazione della scuola privata a quella pubblica, al fine di garantire che l’istituzione paritaria non favorisca la segregazione degli studenti in base al reddito.

È proprio questo il punto che il WBZ, il Centro per le Scienze Sociali di Berlino, ha voluto toccare con la sua ultima indagine, dimostrando che troppo spesso gli Stati Federati chiudono un occhio sui contribuiti economici richiesti dalle scuole private, violando così il principio della costituzione chiaramente enunciato al paragrafo 4 dell’articolo sovracitato. Se infatti una famiglia può permettersi di pagare 800 euro mensili per la scuola del figlio, non si può certo pensare che questa sia una spesa a cui chiunque potrebbe far fronte. Se alcuni Stati cercano di imporre (legiferando a livello regionale) un limite ai contributi scolastici, altri sembrano ignorare il problema ed è per questo che Michael Wrase e Marcel Helbig, il docente di legge e il sociologo che hanno accuratamente svolto l’indagine, hanno sviluppato uno schema in nove punti. I punti dello schema corrispondono a nove leggi che dovrebbero essere promulgate per completare il famoso Articolo 7, in modo da non dare spazio a fuorvianti interpretazioni da parte delle singole comunità.

È interessante come il concetto di “scuola privata” possa essere così liberamente decifrato: da un lato, l’esempio di USA e Regno Unito, con un’istruzione paritaria che può arrivare a migliaia di euro annui; dall’altro la concezione di scuola privata come entità sotto la supervisione statale, che si differenzia dalla scuola pubblica per ragioni di diversa natura, religiosa (come le scuole cattoliche), linguistica (come le scuole bilungui o internazionali), o per l’uso di metodi alternativi alla disciplina classica (come le scuole steineriane, che oggi si conoscono in tutt’Europa grazie al loro approccio creativo e non convenzionale).

L’analisi di Wrase e Helbing è senza dubbio logica e condivisibile, ma lascia comunque spazio a una domanda: se l’istruzione pubblica riceve sovvenzioni statali, mentre la privata è auto-finanziata (salvo alcune eccezioni dove lo Stato interviene), fino a che punto è lecito imporre limitazioni che potrebbero danneggiare la qualità dell’istruzione stessa?
Naturalmente è un dilemma che torna al puto di partenza: stiamo creando, ancora una volta, una società classista ed elitaria?