Inclusione scolastica: una lezione che la Germania può imparare dall’Italia
Torna la rubrica realizzata grazie agli amici di Artemisia e che ha lo scopo di informare sulla disabilità e al tempo stesso di servire da spunto a chiunque voglia, attraverso “Il Mitte”, promuovere una riflessione sul tema. Se volete fare domande o approfondire gli argomenti di cui parleremo, non esitate a contattarci! Oggi recuperiamo un tema molto caro ad Artemisia e anche a noi: l’inclusione scolastica. Lo facciamo con un contributo di Chiara Giorgi.
Il 26 Marzo del 2009 la Germania ha firmato la Convenzione europea per i diritti dei disabili, impegnandosi a chiudere le scuole speciali per permettere a tutti gli alunni, con bisogni speciali e non, di stare insieme nella stessa classe.
Questo primo passo verso l’inclusione scolastica e sociale ha sollevato molti dubbi sull’efficacia della stessa. Sono molti, infatti, tra gli insegnanti, i genitori, gli operatori del settore e i politici, a criticare e a temere l’inserimento dei bambini disabili nelle classi normali. I timori vengono giustificati sia sul piano culturale che su quello economico: gli insegnanti delle classi normali non sarebbero formati per un cambiamento come questo, anche perché richiederebbe un intervento economico che la Germania non può e non vuole permettersi.
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In sette anni il radicarsi di questi dubbi ha fatto in modo che la firma del trattato sia stato un gesto puramente meccanico, forzato nel movimento dalla mano invisibile dell’Europa, che vorrebbe che gli Stati che compongono il suo puzzle si somigliassero nella tutela dei diritti fondamentali degli individui.
Di fatto, ai Länder e alle scuole presenti nel territorio è concessa un’ampia autonomia, in primis quella di decidere che le strade dei normodotati e dei diversi restino rigorosamente separate, che i loro destini non si incrocino mai. Questo sia per il presunto bene dei normali, che in base a questa visione delle cose potrebbero rischiare di rimanere indietro nell’apprendimento, sia per quello dei diversamente abili (o disabili o handicappati, nella traduzione corretta dalla lingua tedesca), ai quali verrebbe evitato il frustrante confronto con una normalità irraggiungibile. Con un sospiro di sollievo da parte di genitori, insegnanti e istituzioni.
Ma la Convenzione e la firma, seppure tracciata da un movimento involontario, pesano sulla coscienza della Germania che, continuando forse a portarsi dietro il peso di colpe storiche, non se la sente di aumentarne la quantità. I diritti delle persone disabili rischiano di diventare un peso insopportabile per uno Stato forte e quasi inviolabile come quello tedesco.
L’Italia ha superato da quarant’anni questo dilemma e un gruppo di legislatori illuminati ha elaborato e approvato intorno agli anni settanta leggi rivoluzionarie, che hanno permesso un cambiamento etico accolto da una società che è conseguentemente maturata, evolvendosi.
L’inclusione scolastica in Italia è stata un’inclusione sociale, ma non ha funzionato dappertutto. Dopo quarant’anni ci sono ancora episodi di discriminazione, di mal funzionamento dell’inclusione e sono ancora tante le disfunzioni che portano molte persone a lamentarsi. Ci si lamenta perché lo Stato taglia i fondi, perché le strutture scolastiche collassano, perché le ore di sostegno vengono ridotte, così come i beni essenziali, che mancano in molte scuole. Gli italiani si lamentano. Forse è questa la grande differenza con la Germania. L’Italia si lamenta, ma non mette in discussione il modello di inclusione. Ci si indigna insieme, il mal funzionamento genera scandali, gli articoli dei giornali riportano reazioni indignate, ma il principio dell’inclusione è sempre salvo.
In Germania, invece, ci si interroga, ci si chiede se un tale modello sia legittimo, se non sia meglio separare, in modo che entrambi funzionino, il sistema normale e quello “diverso”. Due regioni separate, due mondi che si sfiorano appena nella vita di tutti i giorni, sulle metropolitane, nei negozi, nei parchi, per le strade. Zone che non si possono separare. È difficile tracciare una linea e dire: noi stiamo da questa parte, voi dall’altra. È difficile tracciarla quando l’Europa è nata, almeno in principio, proprio con la funzione di cancellare linee e confini, o almeno di renderli più sottili, almeno in una prima fase.
Artemisia si propone di aprire un dialogo tra due Paesi che hanno storie e leggi diverse, ma che fanno parte dello stesso “puzzle”, l’Europa. Ne fanno parte in modo ancora più evidente da quando la facilità di spostarsi determinata dall’assottigliarsi dei confini, ha permesso una migrazione dall’Italia alla Germania.
Le persone portano con sé esperienze, idee, visioni della vita diverse da quelle del Paese ospitante e questa può essere un’ottima opportunità per la Germania. Può esserla nel senso di poter imparare dalle esperienze positive e negative dell’Italia, che da quarant’anni attua un modello di inclusione scolastica a cui la Germania, a sette anni dalla firma della Convenzione, ancora stenta ad avvicinarsi.
Ricordo bene le parole della mia insegnante di storia, Maria Rosa Zanasi, che, nell’ora di educazione civica citò, per spingerci a una discussione, “la peggiore delle democrazie è più auspicabile della migliore delle dittature”. Noi di Artemisia siamo qui per dire: “La peggiore delle inclusioni è più auspicabile della migliore delle separazioni”.
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