Diario di un’autostoppista: ultima tappa, Berlino
di Sara Bolognini
Siamo la generazione degli apolitici per pigrizia. Siamo la generazione dei viziati, della pappa pronta, della paura di provare il brivido del nuovo. Siamo la generazione delle convinzioni per sentito dire. Non ci fidiamo del nostro prossimo perché ci è stato detto di non fidarci, che il mondo è pericoloso, che tutti cospirano per rubare il nostro I-Phone, le nostre banconote, i nostri gioielli di Tiffany. Ma io sono sempre stata una testa dura (o una ragazzina irresponsabile, dipende dai punti di vista) e ho sempre voluto giudicare il pericolo con i miei criteri di paragone, testarlo sulla mia pelle.
È stato questo che mi ha spinto a scegliere un nuovo modo di viaggiare, il viaggio in autostop. Mi ha sempre stupita la concezione che le persone in Italia hanno a riguardo. Fa così studenti hippy squattrinati, fa così anni ’60, ma nel ventunesimo secolo no, non è più un’opzione da considerare, il mondo è diventato troppo pericoloso. Forse il problema sono gli italiani e la loro tendenza ad approfittare l’uno dell’altro appena ne hanno la possibilità, visto che in altre nazioni europee l’autostop è ancora una pratica comune.
Curiosa di vedere cosa sarebbe successo, sono salita su un aereo diretto a Vilnius con un paio di amici, il mio zaino e una tenda. Il piano: percorrere la Via Baltica in autostop, dalla Lituania all’Estonia. Pronta a mettermi alla prova, a superare i miei limiti, a scoprire le mie reazioni, ad affidarmi completamente agli sconosciuti. Dopo aver visitato la capitale lituana, ci siamo messi sulla strada. L’obiettivo su cui in questi casi si concentrano i pensieri è uno, i chilometri da percorrere, tutto il resto è secondario. La sensazione, mentre si sta ai margini di un’autostrada con il pollice di fuori e il braccio pesante, è strana da descrivere, una delle più forti e pure mai provate. È la percezione dell’ignoto, la paura di non raggiungere la meta prima che faccia buio. Poi capisci che un’auto si sta per fermare, vedi la freccia lampeggiare e l’adrenalina sale. L’adrenalina ti sale alla testa come una droga, si lega alla felicità per la consapevolezza di avercela fatta. Seduto sul sedile ti guardi intorno, ti rendi conto che quella stessa mattina ti trovavi magari in un altro Stato.
Un viaggio in autostop ha tutta la bellezza della sostanza e dell’essenziale. Riscoprire i bisogni primari, trovare cibo e acqua, raggiungere la meta, avere un posto per dormire… si dimenticano tutti gli altri problemi di una vita troppo complicata e si impara a fare qualcosa a cui raramente siamo abituati: vivere il momento. Si inizia ad essere felici con le piccole cose che ci circondano, il tramonto, la luce tra gli alberi, la presenza degli amici.
Mi dispiace deludere le aspettative dei paranoici, che ancora credono che non sia sicuro fare autostop, tantomeno per una donna, ma non mi sono mai ritrovata ad aver avuto paura degli sconosciuti che mi hanno dato un passaggio. No, nessuno ha provato a derubarmi, uccidermi e gettare il mio corpo in un campo. Ho incontrato generalmente persone normali, famiglie in rientro dalle vacanze, manager dalle macchine costose, contadini un po’ alticci che mi hanno rimpinzato con bacche coltivate nel loro campo, finlandesi in viaggio con un van e il cane, ma, purtroppo, nessun mostro radioattivo con un corno in testa a cui scattare una foto per potersi vantare con gli amici.
Mi sono stupita di quanto le persone si siano date da fare per aiutare un branco di sconosciuti un po’ puzzolenti che parlavano, per giunta, un’altra lingua. Ricordo, per esempio, il pomeriggio in cui volevamo spostarci da Riga. Un lungo pomeriggio. Dopo avere aspettato per più di un’ora ai margini di un incrocio trafficato, iniziavo davvero a pensare che non ce l’avremmo fatta. Poi, un’auto si è fermata. Adrenalina, felicità, sicurezza. I conducenti erano una coppia di mezza età e nonostante non fossero diretti alla nostra stessa meta, hanno comunque deciso di deviare per portarci a destinazione. O, ancora, ricordo quella volta in cui dei lituani “sgangherati” (a uno mancava un occhio, a uno un paio di denti), ci hanno dato un passaggio sul loro furgoncino, facendo poi sosta in un supermercato per comprare delle birre con cui brindare, con noi, al compleanno di uno di loro e invitandoci alla loro festa. In un’altra occasione siamo stati tirati fuori dai guai. Sperduti nella campagna, non avevamo trovato un posto per dormire, avevamo finito l’acqua e i soldi. Avevamo già steso i nostri sacchi a pelo per terra, pronti ad accamparci per strada affrontando lo sciame di zanzare più cattive mai viste, quando abbiamo incontrato un gruppo di camperisti romani che ci hanno permesso di piantare la nostra tenda tra i loro camper e offerto biscotti e acqua per il viaggio, salvandoci dalla disidratazione. Potrei continuare, ma questo vuole essere un articolo, non un libro di memorie.
Concludo solo dicendo che, per assurdo, su un viaggio di 754 km la tratta più faticosa è stata quella che sembrava più facile e breve, Milano-Bergamo, l’unica italiana. La domanda che vi rivolgo è quindi: quanto siete pronti a lasciarvi andare? Quanto siete pronti ad affrontare l’imprevisto? A godere delle piccole cose, di ció che è semplice, di ciò che è sostanziale? Siete ancora capaci di provare solidarietà per uno sconosciuto?
Quando mi sono trasferita a Berlino ho incontrato viaggiatori e persone con un altro tipo di mentalità. La cultura dell’autostop qui non è ancora morta, così come nel resto della Germania. I berlinesi hanno ancora voglia di avventura e sono più aperti al confronto. È forse per questo che resto così volentieri qui, dove ho la possibilità di confrontarmi con persone dalla mente più aperta.
In fondo, apparteniamo tutti alla stessa razza e allo stesso destino. Abbiate il coraggio di mettervi alla prova.