AperturaSehnsucht

Sehnsucht: storie metropolitane

“Sehnsucht” è l’unione di due arti. È la scrittura unita alla fotografia. È l’ispirazione del momento. È un attimo di vita. È la ricchezza del dettaglio. È il sogno ad occhi aperti. È la voce dell’anima. È la malinconia e la gioia. La vittoria e la sconfitta. È la ricerca. La lotta. Il pensiero e la parola. La voce e il silenzio. È l’istinto. È l’ispirazione. “Sehnsucht”” siamo noi e siete voi. “Sehnsucht” è il desiderio di desiderare. Una rubrica a cura di Valerio Polani e Cesare Zomparelli

Photo by Cesare Zomparelli
Photo by Cesare Zomparelli

La metro è affollata oggi.
Mi guardo intorno. Noto che sono uno dei pochi che ha avuto la fortuna di trovare un posto a sedere. Qualche posto più in là c’è una ragazza intenta a disegnare su un piccolo album. È molto bella, ha il viso delicato e particolare. Sembra dolce. Qualche ciuffo dei suoi capelli colorati le scivola sul viso accarezzandone i lineamenti. In fondo al vagone un gruppo di ragazzi si parla all’orecchio, sono cauti nel raccontarsi i propri segreti. Per un attimo penso stiano parlando di lei. Poi cambio idea. Davanti a me c’è un ubriaco sdraiato sui sedili. Russa, sbuffa. Mi chiedo come faccia a rimanere in quella posizione senza far cadere la birra che tiene tra le mani. Ha i capelli lunghi e sporchi, unti. Non esageratamente, ma si nota. È inevitabile. La barba è incolta, tra il grigio e il rossastro. Non riesco a vedere bene altri dettagli: è tutto rannicchiato su se stesso. Prigioniero di sè.
Guardo l’orologio.
6.42.
Sono in ritardo. Come al solito. Marie mi ucciderà.
Hermannplatz.
La metro si ferma. Un enorme flusso di gente esce, uno ancor maggiore entra nel vagone. C’è una timida signora con il velo e un passeggino doppio che entra e nota subito l’ubriaco. Percepisco il suo disagio. I due bambini a spasso con lei hanno imparato ad essere silenziosamente rispettosi e hanno gli occhi enormi. I nostri sguardi si incrociano e in un attimo nella mia mente riaffiora l’immagine dei penetranti occhi dipinti da Margaret Keane, raccontati nell’ultima pellicola di Burton. Accenno un timidissimo sorriso. Poi distolgo lo sguardo. La mamma guarda il barbone per un po’. Mi rendo conto di essere al centro di un infinito gioco a catena fatto di sguardi, intensi e non. Ricercati o negati. Chissà perché oggigiorno gli sconosciuti sembra abbiano paura di guardarsi negli occhi. La signora sbuffa. Forse avrebbe voluto sedersi su uno dei posti che l’ubriaco sta ingombrando in preda alla sua sbornia. Accanto a lei c’è un ragazzo alto e biondo che indossa delle cuffie enormi e scuote la testa sorridendo. Segue il ritmo di una melodia così tanto chiara per lui, quanto silenziosa per noi. Lo immagino in un altro mondo e d’altronde un po’ è come se lo fosse. Sta in piedi e appoggia le spalle alla porta opposta del vagone dalla quale è entrato. Continua a scuotere la testa a ritmo, non si cura di nessuno. Io mi guardo di nuovo intorno, sempre più incuriosito, pronto ad entrare nel gioco.

Il tipo ubriaco è ancora lì. Immobile. Non riesco a non chiedermi dove dovrà scendere, se ha una destinazione e cosa cazzo ha fatto ieri notte per ridursi così. La birra che tiene tra le mani è ancora piena. O quasi.
Vibra il telefono. È un sms di Marie. “Porta una bottiglia di vino, bitte”.
Metto l’iPhone di nuovo nella tasca. La metro frena.
Scruto rapidamente fuori, per capire a che fermata sono.
Mehringdamm.
Guardo l’orologio. In venti minuti non ce la farò mai ad essere da Marie. Spero almeno di ricordarmi la bottiglia di vino.
Ma poi, lo vuole bianco o rosso?
Alzo leggermente lo sguardo verso l’alto, inizio ad osservare la mappa della metro senza un motivo chiaro. Non lo so nemmeno io. Per un attimo mi perdo in quel labirinto di linee colorate che si intrecciano tra di loro, disegnando particolarissime forme geometriche.
Poi l’occhio cade di nuovo sull’ubriaco davanti a me. È sempre lì. “É incredibile”, penso. Sempre nella stessa posizione e nessuno che se ne curi, nemmeno io. La signora con il passeggino nel frattempo è scesa e il suo posto è stato rimpiazzato da un signore che non stacca gli occhi dal suo smartphone. Dà l’impressione di essere un manager, o qualcosa del genere. In quel momento penso che, sebbene cambino le pedine, il gioco della catena degli sguardi continua e continuerà sempre. Anche quando sarà il mio turno di scendere dalla metro. Qualcuno mi rimpiazzerà, prendendo il mio posto, e comincerà a guardare con i suoi occhi quello che poco prima io vedevo con i miei. Dalla stessa angolazione da cui lo vedevo io. La cosa continua a farmi pensare molto. Penso a quante vite si incrociano. Penso alla velocità della vita, alla frenesia. Allo stesso tempo penso anche a quel lato temporaneo dell’esistenza che tanto mi rassicura e mi spaventa. Penso ad un intreccio di idee tutte assieme e comincio a realizzare che quel gioco mi piace. Tutti partecipano e allo stesso tempo tutti ne sono fuori. Rispettano tutti delle regole che nessuno ha scritto mai. Non ci sono vincitori, nè vinti. Ci si annoia, a volte, altre no. Dipende tutto da quanto riteniamo interessanti le pedine intorno a noi.

Ore 6.58.
La metro si ferma. La voce automatica mi ricorda che sono a Kleistpark. La mia fermata. Mi sveglio di getto dal mio flusso di coscienza, la birra che tenevo in mano cade, ma non me ne preoccupo. La testa mi esplode. Ho la nausea.
Chi prenderà il mio posto, ora? Chi giocherà la mia partita? Chi scoprirà dove scenderà l’ubriaco?
Mi passo velocemente la mano sulla barba incolta per capire un attimo dove mi trovo, pochi secondi d’assestamento. Ho la vista vagamente annebbiata. Un ragazzo seduto davanti a me mi fissa, ma io interrompo la partita: mi alzo e scendo di colpo dalla metro.
Devo comprare del vino per Marie.
Rosso o bianco?

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